— 13 — lico, e Giotto affrescava negli interni placidi in cui la penombra soccorreva all’estasi, e misurava la gradualità del tono su una raccolta nota basilare d’ambiente, i veneziani respiravano ampiezze d’accordi puri fuori dalla descrizione episodica. Cielo e mare era il loro teatro : l’azzurro e il verde, sui quali il rosso risaltava, squillante « come suono di trombe guerriere ». Tempi lontani; veniamo a Gentile da Fabriano, ai Bellini, al Mansueti, al Carpaccio che aveva la verità nel cuore. E ricordiamo in particolare quest’ultimo perchè quella verità, appunto, ci permette di credere esatta la riproduzione del terzo ponte rialtino nella pittura del Miracolo della Croce di San Giovanni Evangelista, che dev’essere considerata singolare documento non meno della Processione in piazza con cui Gentile Bellini illustrava altro miracolo della Croce stessa. Insomma la città aveva spiegata nelle arti edilizie, carezzate dalla policromia, una grande energia archi-tettonica, elementi esoterici ed endoterici offrivano armoniche sontuosità, ma il ponte di Rialto rimaneva, in modestia, tutto di legno. Nelle feste solenni passava sotto di esso il Bucintoro. Si levava la passerella per dar luogo al pennone recante il gonfalone codato della Repubblica. Le acque glauche stemperavano l’oro della polena e dei fregi e il vermiglio del baldacchino dogale. Il doge, circondato da venerandi vecchioni ornati di bastevole sapienza, pareva più che un principe un santo. Lo spettacolo aveva eloquenza di nazionale orgoglio. Pareva che quel vessillo che s’innestava nel ponte chiamasse a persuasione ch’esso era il solo degno di star alto tra Oriente ed Occidente, i due pilastri sui quali Venezia aveva gettato il suo arco cementato di tenacia, di forza, di esperienza,