— 124 — vere, delle corazze rilucenti, un cippo, un rosso carnefice e nel mezzo la figura canuta ancor diritta e disfidante. Provate a indurre l’artista a sacrificare alla verità del particolare sì cospicui elementi pittorici per darvi, di maniera, una facciata e una scala che non si sa che forma avessero e sentirete. Come a maltrattar Paris Bordone che mise il doge in trono sul margine d’un canale e Paolo Veronese che dava vesti cinquecentesche alle figure della Cena e Raffaello che celebrava il suo secolo nell’architettura dello Sposalizio. Lasciamolo, lasciamolo l’artista alla sua ispirazione, troppa critica e troppo facilona, anche oggi, anzi oggi. Occorrerebbe conoscere talora, dov’è appoggiata, su quali principii d’estetica. Ma si parlava della scala dei giganti. Appena in cima ci ferma una lapide di Alessandro Vittoria : ricorda la visita di Enrico III a Venezia. Cerchiamo là vicino qualche cosa; cerchiamo la lampada d’oro ch’era stata murata con essa, poi cerchiamo le ragioni politiche delle straordinarie onoranze tributate al Re di Francia e di Polonia, ma non riusciamo a trovare nè l’una nè le altre. L’intento politico, quello furbesco, occulto, apparteneva alla Segreta, la lampada arde ora nel cuore di chi varca quella soglia maestosa ed è alimentata dalla reverenza delle memorie che suscita in noi codesta sede d’ogni grandezza eloquente, ma altresì di silenzi che la mente si stanca d’interrogare. Specie di labirinto portentoso essa è. T’invita per le innumerevoli stanze dei magistrati, su per la scala d’oro; t’inoltra nelle cancellerie ducali, nei locali del Consiglio dei X, degli inquisitori di Stato, neH’Anti-collegio e nel Collegio, ti porta zig-zag nelle sale dei