— 67 - della gloria di Dio e della gloria della Veneta repubblica. Ma ve ne fu uno? Questo solo sappiamo: che indipendente da servitù nell’ordinamento delle parti di queirimmarcescibile manto d’oro che stava per essere spiegato tra archi e colonne, cupole e catini e nicchie e pareti, il mosaicista veneziano confondeva il suo paziente lavoro con quello del greco radicato a un empirismo tutto dogmatico, che ne sentiva il fiato, che respirava Bisanzio. Il compagno che gli sta accanto non ha facoltà di improvvisazioni, di rinnovazioni; il materiale formativo di cui dispone è ancora quello dei maestri che l’abate Desiderio chiamò a Montecassino e che Leone I mandò a Venezia nell’ottocento pel monastero di San Zaccaria. Non ha possibilità di sviluppare una sua immagine interiore svincolata dalla staticità del manierismo, di offrire un’emozione nuova. I suoi schemi sono mnemonici ricalchi. Triste è la vicenda musiva di quel periodo poiché la povertà stilistica, che si maschera di trascendentalità, è naufragio nel convenzionale, è balbettamento, assenza di calore di vita. Per cui quel popolo di Vergini e di Santi che via via compare sulle vaste pareti, quelle nimbate figure, portano tutte lo stigma di una malattia stessa, di una stessa infelice genitura : appaiono fantomaticamente denutrite ancorché non al punto in cui due secoli prima viaggiavano per le cupole di Roma. Ma presto si diffonderà quell’alito latino che scuoterà gli artefici nostri, i quali saranno solleciti a sbarazzarsi da un arido mimetismo e alle magre figure, alla falsa ieraticità, alle grame simmetrie delle figure, sempre isolate per difetto di sapienza tecnica (ci pensino taluni pittori che faticano a mettere insieme Adamo ed Èva) volteranno le spalle e sapranno sostanziarsi