- 139 - un’ambasceria compiuta nell’agosto; ma di ciò gli archivi taciono, e falsa fu riconosciuta la lettera che il Doni finse scritta da Dante a Guido da Polenta attribuendo ai veneziani di non aver compreso il suo discorso in latino. « Il Doni finse librerie, accademie, che non furono mai, e dettava ciò che gli veniva alla bocca per guadagnarsi il pane ». Tiriamo via. Fra incertezze e fantasticherie maligne una cosa par di dover osservare : i reciproci silenzi di Dante e di Venezia. In De Monarchia il poeta scrive: « ..... La giustizia è potentissima solo sotto il Monarca : dunque all’ottima disposizione del mondo è richiesta la monarchia, ossia l’impero » nè si può credere che fosse questo un principio politico consono alle direttive del veneziano governo che vedeva l’emblema della perfetta giustizia nel suo leone soltanto. D’altra parte Dante non ignorava che se una forza poteva distruggere il suo sogno questa era Venezia. E tacque. Tacque delle virtù e dei vizi della Dominante, della imponenza delle sue imprese, dell’ardimento de’ suoi navigatori, di Marco Polo. Non ricordò di essa che il bollire e ribollire della tenace pece nel suo arzanà, particolare che s’adatta a qualunque cantiere navale di que’ tempi, eppoi un fenomeno lagunare che è del resto, citato nella lettera di Cassiodoro ai tribuni marittimi : E come il volger del ciel della luna Copre e discopre i lidi senza posa... Possibile che la città originale non suggerisse al grande altre imagini ? In quale misura erano da lui serbati a Venezia e la stima e l’affetto ?