318 giunzione delle sue truppe colle impernili. gi la vasi vivamente la questione in senato: dicevano alcuni,non doversi intimo-l'irede’progressi francesi,fatti più camminando che combattendo, e Pavia averli già arrestati, essere più atti a cominciar l’imprese che a sostenerle, ed il re sebbene valoroso non essere capace alla guerra in grande; e al caso d’un rovescio e del partirsi loro d’Italia, la repubblica resterebbe esposta a tutta la collera di Carlo V e alla potenza delle sue armi divenute più formidabili. Ninna speranza doversi mettere negli altri principi italiani, nulla inclemente VII pieno di timoree irresoluto.Perseverare nella lega essere oltre che onesto anco utile, poiché ammesso il pieno trionfo di Francia, diveniva interesse di questa il procacciarsi l’amicizia della repubblica perconsolidar-si nel dominio e far fronte agli spaglino- li che tuttavia resterebbero nel regno di Napoli come dominio di Carlo V. Per le quali cose stimarsi miglior partito quel- lo di temporeggiare e stara vedere qual piega prendessero gli avvenimenti. Diversamente opinavano altri:che oltre all’onesto, che pur deve entrare nelle u-mane deliberazioni, era opportuno alla repubblica, non potendo cacciare i due invasori, mantener tra loro un certo contrappeso onde l’uno non superasse l’altro in modo da poter un giorno schiacciare tutti i principi d’Italia; il temporeggiare, anziché acquistare alla repubblica il favore d’una delle parti, le inasprirebbe ambedue; gettandosi invece apertamente ed efficacemente alla parte di Francia, più facile divenire che gl’ imperiali spaventati di tanto aumento di forze e ridotti quasi alla disperazione, lasciassero del tutto l’Italia, e allora dall’alleanza con Francia, riconoscente del beneficio ricevuto, memore dell’antica amicizia, della religione sempre posta dalla repubblica nel serbare la data fede, verrebbe pace a Venezia, la quale potrebbe alfine respirare di tanti anui di guerra che ro* vinato aveano l’erario, interrotto i commerci, desolato i popoli. Questa opinione prevalse e fu deliberatodi dare autorità a Marco Foscari tuttora oratore a Roma di trattare la cosa presso il Papa, rimettendo all’arbitrio di questo il prendere quel partito che più credesse giovare alla causa comune e alla pace generale,che egli diceva essere scopo de’suoi voti, non cessando però di raccomandare tirare in lungo possibilmente la conclusione finché si vedesse l’esito dell’assedio di Pavia. Era pensiero di Clemente VII che Milano avesse a rimanere a Francia, Napoli all’imperatore; ma la repubblica ben vedendo che quest’ultimo non vi avrebbe mai consentito, scrisse al Papa facesse da se pace con Francia, lasciando luogo alla repubblica, alla quale Sua Santità farebbe allora ammonizione di desistere dalle armi. Se poi, soggiungevasi, il Papa volesse invece assolutanlente rinnovar la lega tra la s. Sede, Cesare e la repubblica, badasse di spiegare ben chiaro, che tale lega era solo contro principi cristiani, per non dare sospetti al turco col quale Venezia era allora in pace. Mentre queste cose si maneggiavano, l’oratore cesareo a Venezia presentava nel gennaio i5-ì5 al doge una scrittura, in cui principalmente si diceva: Avere Carlo V posto ogni cura per la pace d’Italia e tenerne fuori i francesi, di sostenere nello stato di Milano Francesco II Sforza, suo stretto parente, ora il viceré di Milano si accingeva a reprimere la tirannide del re di Francia; perciò esortare la repubblica, come amica e confederala, volesse unirsi od esso a cacciare il re dall’Italia e liberar questa dalle sue genti, per non lasciare sfuggire l’opportune occasioni di condursi a felice termine sì gloriosa intrapresa. Questa scrittura levò nuova tempesta in senato, perchè Gabriele Moro, occupata la bigoncia, apostrofo amaramente i signori del collegio, con quel discorso riportatodal prof. Piomaniu,colla nota di: saggio notabile di franchezza