- -24 - pena comincia a sentire il bisogno di andarci, così l’irredentismo non sa ancora immaginare politicamente le forme della sua vittoria e il lavoro per prepararla praticamente. Non è politico. Non ha mai saputo decidersi, nella vita italiana por l’una o l'altra tendenza; non ha mai saputo dire se l’una o l’altra corrente possa condurre l’Italia alla grandezza o alla rovina. Nella sua adorazione entusiastica per l’Italia, abbassandosi fino all’ingenuità di quelli che sono senza partito, innalzandosi fino alla sublimità di chi giudica gli uomini e le cose solo dalla bellezza morale delle loro opere verso la Patria, ha adorato ugualmente Mazzini e Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele, i morti di Dogali e i combattenti di Digione, Crispi e Cavallotti. Tutto quanto in Italia aveva nome e clamore, tutto quanto di fronte agli stranieri imperialisti, democratici, conservatori, socialisti, poteva servir a gridare: se voi avete dei grandi uomini, noi nello stesso campo e nella stessa tendenza che voi preferite, ne abbiamo dei migliori; tutto quello che vi è stato in Italia di diversamente grande, dall’irredentismo è stato ugualmenta apprezzato. Nemmeno nella monomaniaca adorazione dei propri ideali, l’irredentismo ha saputo distinguere nei partiti italiani quelli che erano veramente utili alla sua causa da quelli che la danneggiavano. Ha amato tutti quelli che get- — 25 — tavano nell’aria i nomi di Trieste e di Trento, come l’infelice ama chi gli tende la mano e non pensa a guardare se la mano è valida e capace di prestar soccorso. Per ciò ha accettato il patronato repubblicano e ha avuto, in certi momenti, entusiasmi per Cavallotti e per Imbriani; e l’irredentismo repubblicano ha approfittato di questa simpatia, gettata senza discernimento da anime velate dall’angoscia, per farsene un monopolio e un’arma per le sue battaglie partigiano. Ma l’irredentismo, non ò stato mai responsabile di queste bassezze. Onorava negli altri l’irredentismo, non le opinioni politiche. La sua adorazione per tutto quello che era italiano, gli impediva di dubitare persino delle istituzioni del Eegno, del suo Esercito, della sua Dinastia. Trieste è stata grata per la propaganda irredentistica di Cavallotti, ma ha aspettato e aspetta la liberazione dal regio esercito comandato dal Re d’Italia; ha mandato i suoi giovani con Garibaldi in Grecia, ma si è coperta di gramaglie quando morì Re Umberto; applaudì Menotti quando venne a Trieste, ma mandò il suo obolo per i feriti della guerra di Libia. La volontà nazionale ha messo a capo del popolo la Dinastia di Savoia; l’esercito che sarà liberatore è l’esercito del Re e Trieste non può essere che monarchica. L’unico atto rivoluzionario dell’irredentismo triestino attesta ancora una volta la sua natura. Guglielmo Oberdan voleva la guerra con l’Au-