256 VITA SEGRETA DI GABRIELE D’ANNUNZIO Da quei giorno, d’Annunzio, ciie nella stessa epoca era divenuto proprietario della villa « Il Serraglio », lo chiamò: « L’Eunuco del Serraglio ». E, da allora — benché nel 1935 egli scriva, a proposito di equitazione: « Indulgente è la morte se oggi mi lascia provare anche il più ardente de' miei piaceri » — non montò più a cavallo. Per il gatto, d’Annunzio non ebbe mai nessun culto speciale. Egli non lo considera affatto come un animale semi-sacro e dotato di facoltà quasi divinatorie, come tutti gli innumerevoli adoratori di questo felino. Per il nostro Poeta, il gatto è semplicemente un animale grazioso e soprattutto simpatico perché indipendente, estremamente pulito e sensibilissimo: tre qualità che egli pure possiede al sommo grado. D’Annunzio non ha mai tenuto un gatto sulle ginocchia, né tollerato di vedersene uno sul tavolo da lavoro. Nondimeno le sue case raramente furono prive di gatti, ed egli ne ricorda spesso alcuni. Primo fra tutti un certo Tigrotto che chiama « il suo dilettissimo gatto », al quale dedicò a diciassette anni un esametro: « Sdraiato sul muro, come un bascià sonnecchia ». A Tigrotto fa seguito una gattina che all’epoca in cui il Poeta scriveva « l’Innocente » s’era introdotta furtivamente nella sua casa di Roma e che egli chiamò in un primo tempo: «Anfanila Vàgula », ritenendola, forse a causa del suo pelo immacolato, un angelo di purezza. Dovette poco tempo dopo ricredersi. « Mi tornò a casa una notte » racconta, « dopo essere stata posseduta, come una Messalina, eia almeno cento gatti: e fu dovuta uccidere per lo stato miserando in cui si trovava ». Poi, il gatto Miramar «piccino, con gli occhi bellissimi azzurro-chiari » che gli fu regalato il giorno della battaglia del Timavo e perciò ebbe da lui il nome fatidico del castello triestino.