D’ANNUNZIO E IL DIO DENARO Mi scrive esasperato a proposito di un piccolo innocente ritardo o disguido avvenuto da parte di una Banca nell’in-viargli una data somma: «Finalmente oggi ho potuto avere la somma. «La Banca è stata d’uria negligenza odiosa. S’ì scusata dicendo che mi credeva in Tripolitania ! » Le eventuali misure precauzionali prese dai suoi creditori, le considera ignobili. Mi scrive: « Pensa che costui mi minacciava atti irreparabili, uscieri, confische ed altre simili porcherie! » Un’altra volta conclude scherzosamente una sua lettera pure a me diretta e carica, come al solito, di lamentele contro le difficoltà della vita materiale, con queste parole: « È mai possibile, che non si trovi al mondo un originale che mi dia quei pochi milioni che mi occorrono per lavorare in pace, mentre si trovano a centinaia gli idioti che li spendono per comperare oggetti storici e raccolte di francobolli? Non sono forse anch’io un oggetto storico di qualche valore ? » Il male è che quando ha denaro e potrebbe, come dice lui, « lavorare in pace », è turbato, distratto, inebriato dalla voluttà di spendere, la quale gli accaparra tutto il suo tempo, e da manie decorative e costruttive che nel loro preventivo, inutile dirlo, rappresentano sempre il triplo della disponibilità. Lascio immaginare al lettore a quanto poi possa ammontare il consuntivo. Nel 1905, a me (suo editore in quel tempo) che gli rimproveravo paternamente uno spreco di denaro che mi sembrava inconcepibile, trovava naturalissimo tenere questo ragionamento: « Ma tu dimentichi che io ho otto cavalli, ven-tidue cani; che compero delle cravatte da cento lire l’una e delle camicie a trecento. Come vuoi che faccia a cavarmela con poco? » E me lo diceva sinceramente con la stessa precisa intonazione con cui un impiegato che vuol farsi aumentare lo stipendio, dice al principale: « Ma lei dimentica che io ho moglie e dieci figli ». Qualche volta scherza sull’argomento e sulle sue eterne