LE DIMOKE DEL POETA 213 L’atmosfera, in quell’ambiente, era molto più respirabile del solito e i profumi e gli incensi erano usati qui con maggiore parsimonia che alla Capponcina. Il calore era anche più sopportabile. D’Annunzio conduceva ora una vita più igenica e, per qualche periodo, persino severa. Quando non lavorava, si alzava per tempo come fa sempre, girovagava nelle sue stanze, come fa sempre, leggeva, meditava, poi faceva una trottata o una galoppata sulla duna, seguito dai suoi cani. Rientrava per la colazione. Prendeva il caffè nel giardino, dalla parte del mare. Andava a vedere i cani nel canile e i cavalli nella scuderia. Poi si rinchiudeva di nuovo nella biblioteca fino alle sei di sera. A quell’ora, anche d’inverno, non appena s’era fatta notte, usciva a fare una passeggiata, solo, con uno dei suoi cani prediletti. Rientrava, pranzava, faceva un po’ di musica (giacché d’Annunzio sa improvvisare sull’«armonium » con un certo talento) o ne ascoltava fare da altri. Verso le dieci e mezzo si rinchiudeva ancora nella biblioteca. Come alla Capponcina, anche quando la sua vita era severa, non era però mai ascetica. In d’Annunzio, assai più simile in ciò al suo conterraneo Ovidio che a Tommaso Moore, questo stato di grazia (come alcuni osano chiamare l’ascetismo) non è mai stato che un pio desiderio. In ogni caso non è mai durato in lui più di quindici giorni. E di questo « record » egli si è a tal punto vantato, che ritengo che la cosa debba essergli capitata al massimo due volte nella vita. Non riceveva quasi nessuno. Qualche raro amico di tempo in tempo, forse ogni due mesi; non di più. Quando io lo vidi a Fiume, qualche anno dopo, ricevere in una sola giornata qualche volta fino a cinquanta persone di seguito, non riuscivo a convincermene, perché per