d’annunzio e la politica 535 pronunziare discorsi, presiedere commissioni, far dell’ostruzionismo al caso, e, col tempo, diventare magari anche ministro. Voleva insomma permettersi il lusso d’un gioco, provare delle emozioni inedite: non altro. Non senza ragione aveva scritto ad un amico, mentre stava iniziando la sua campagna elettorale: «jBisogna che il mondo si persuada che io sono capace di tutto ». Egli aveva però dimenticato, che, a quei tempi, l’individualismo, di cui egli era un perfetto campione, in politica non era ammesso, e che soprattutto non conduceva a nulla; che ad un neo-deputato nessuno chiedeva di dar prova di intelligenza, di iniziativa e di competenza, qualità tutte pericolosissime, e delle quali una dozzina di geronti si stimavano i soli depositari autorizzati; che, quel che si richiedeva, era invece semplicemente il «voto »; che, per il « capo partito » o per il « capo gruppo », contava tanto il cervello del gran poeta Gabriele d’Annunzio quanto quello dell’ultimo idiota incluso nelle liste su indicazione di un Prefetto o per volere di qualche impresario di comizi elettorali. Prima dell’elezione egli aveva scritto a Emilio Treves: « Sono candidato. Se potrò vincere i primi disgusti che solleva in me la Bestia Elettiva, condurrò a termine l'impresa felicemente ». Per «Bestia Elettiva» egli intendeva in fondo (anche se lasciava credere il contrario) non già 1’« istituto del suffragio » (del quale altamente egli s’infischiava), ma l’insieme di quei fatali contatti fisici, visivi, uditivi, che vanno dal colloquio con l’elettore « influente», all’adunata; dall’esposizione di irrealizzabili e complicati programmi davanti a folle di analfabeti, alle volgarissime bicchierate; dalle strette di mano viscide, ai colpetti familiari sulle spalle, ecc. ecc. Era proprio tutto ciò, che faceva orrore a d’Annunzio, e non altro. Tant’è vero che, non appena tornato dal primo inevitabile giro di campagna elettorale, scrisse, con molta