230 VITA SEGRETA DI GABRIELE D’ANNUNZIO I cani di d’Annunzio! Chi non ha inteso parlar d’essi almeno una volta nella vita? I loro nomi e le loro gesta confusi coi nomi e con le gesta di creature più delicate e più illustri, affiorano costantemente durante l’intera esistenza del Poeta. Quanti ne possedette? Come e dove finirono? Quali furono i preferiti? Prima di rispondere a queste domande, bisogna ch’io apra una breve parentesi. Benché d’Annunzio ami in generale tutte le bestie e in particolare i cani e, di conseguenza, egli sia assolutamente incapace di torcere un pelo al più miserabile e volgare bastardo, egli ha sempre prediletto le razze canine più nobili, se non le più intelligenti. L’aggettivo nobile dev’essere, nel nostro caso, inteso nei suoi molteplici significati: nobiltà di sangue; nobiltà di linee estetiche; coraggio. Ora, se si eccettuano i cani che chiamerò «salvatori » (San Bernardo e Terranova), i danesi, i cani poliziotti (quasi ignorati dagli amatori sino a qualche anno fa) e forse le razze delle regioni boreali, di cani che possano riunire le tre qualità di purezza di sangue, di bellezza plastica e di ardire, non rimangono che i levrieri, i cani da caccia, e, con un po’ di buona volontà, i « fox ». Siccome d’Annunzio non è stato mai cacciatore, è chiaro che le sue preferenze debbano essersi rivolte costantemente ai levrieri, ai « lunghi musi » come egli ama chiamarli. È ad un levriero che toccò l’onore di essere eternato dal Poeta, non colla penna, ma in una acquafòrte, la sola che egli abbia eseguito nella sua vita. Essa rappresenta una donna nuda, mezzo drappeggiata in una stoffa ornata coi segni dello zodiaco. Ai suoi piedi sta un grande levriero (i). TI soggetto dell’acquafòrte è ispirato dai versi: (i) Della rarissima incisione esiste una copia al Museo di Bayonne, donata da Georges Hérelle, allora traduttore delle opere di d’Annunzio.