d’annunzio e la politica 539 Udite come parlò di due possibili futuri Presidenti del Consiglio, in un suo articolo sulla sorte futura d’Italia in eventuali conflitti internazionali, mentre stava per ripresentarsi come deputato nel collegio di San Giovanni a Firenze: « Qual parte, qual sorte avrà V Italia in questo formidabile contrasto? Ritroverà ella la sua coscienza? Scoterà ella nel suo profondo le forze dormenti che potranno salvarla? E in quest’ora di sua vergogna comprende ella la necessità vitale di spazzar via la massa di sporca imbecillità che l’opprime? Ahimè, temo che per ora ella sia già destinata a cadere nelle mani di un giudeo dalla fronte bassa, ghiotto delle sue unghie e del suo cerume, a cui un soldato balbettante, che non ha d’Italia neppure il nome, la cederà come taluno cede una scarpa vecchia a un rigattiere del Ghetto! ( i ) » E, in un’altra occasione, nel 1904, parlando del leone veneto incastrato nelle mura dell’adriatica Montona, non esitò ad affermare per iscritto: « Giova a noi ricordare che, sempre, v’è più forza e più saggezza nella più rozza delle nostre pietre, che nei cervelli melmosi dei nostri uomini di Stato. » E, nel 1909, parlando a un gruppo di studenti abruzzesi, ch’erano andati a visitarlo a Pisa, quando la conversazione tocca l’argomento politico, definisce la Camera Italiana « un club di terz’ordine ». Le consuetudini parlamentari poi, le espressioni di rigore, i modi tradizionali di dire usati in Parlamento, ebbero sempre per lui un irresistibile sapore comico. Un giorno di votazione, un deputato corse nei corridoi a cercarlo perché mancava « il numero legale ». D’Annunzio non si mosse e si accontentò di ridergli sul muso. « Il dèmone del riso aveva invaso il mio spirito! » egli scrisse più tardi rammentando questo episodio. (1) Pelloux e Sonnino.