COME D’ANNUNZIO CREA UN CAPOLAVORO 363 sembrargli necessario dopo la vendita della « Cappon-cina » ( 1 ). Scrivere per esempio come Théophile Gautier, nelle redazioni dei giornali o come Baudelaire o Verlaine su un tavolo di un caffè, gli è sempre stato materialmente impossibile. Mai ha scritto qualcosa di serio e di seguito in giardino, o comunque all’aperto, né alla « Capponcina », né ad Ar-cachon, né alla Versiliana, né alla Casetta Rossa, né al Vittoriale. Perciò esito molto a credere che abbia composto dei versi sotto il famoso platano della Villa del Motrone, come vorrebbe una poetica tradizione, che più tardi nel « Libro Segreto » egli si sforza di accreditare quando scrive: « Perché ho abolito la delizia dello scrivere in un canto del giardino ? » Quel che invece è per lui anche oggi indispensabile è l’assenza di oggetti, tappezzerie e mobili che offendano il il suo buon gusto, e sopratutto di rumori. Recentemente egli ebbe occasione a questo proposito di raccontarmi al Vittoriale che il rumore « assordante » di un tarlo annidato in un mobile dello studio, gli impediva assolutamente di lavorare; e concluse, col suo solito umorismo: «Fortunatamente questo mostruoso tarlo fu identificato ed ucciso dai miei servi ». Dal 1911 in avanti, ha sempre usato penne metalliche (2), « la penna ottusa », come usa chiamarla perché non appuntita, ed ha sempre scritto seduto ad un grande tavolo massiccio di noce, semplicissimo: un tavolo da refettorio. In questo modo egli scriveva anche ultimamente al Vit- (1) Egli aveva scritto infatti ad Emilio Treves, quando aveva preso in affitto la « Capponcina »: « Trasporterò lassù i miei cavalli, i miei cani, i miei servi e tutte le cose superflue che mi sono necessarissime quando lavoro ». (2) Dal 1915, seguendo l’abitudine di Lamartine, d’Annunzio scrive anche frequentemente a matita, però sol quando si tratti di articoli per giornali, proclami ecc.; e quasi mai se si tratta del testo di un’opera vera e propria.