D’ANNUNZIO GIUDICA SE STESSO E GLI ALTRI 103 Non è mai facile, con un uomo come il nostro eroe, cosi proteiforme, cosi mutevole, non tanto nei suoi veri sentimenti ma nelle sue dichiarazioni, che differiscono talvolta sostanzialmente l’una dall’altra secondo che son fatte al signor X, piuttosto che al signor Y, o in una bella giornata di marzo piuttosto che in una, piovosa, d’aprile, stabilire inconfutabilmente cosa egli pensi realmente di una sua opera. Per avvicinarmi alla verità debbo quindi scegliere fra le sue dichiarazioni non già quelle che so determinate da circostanze speciali, ma quelle che trovano quotidiano riscontro nella sua conversazione amicale e quasi direi nei suoi gesti e nelle sue attitudini quando gli si parla d’una sua opera. In linea generale, d’Annunzio non solamente è un severo giudice di quel che ha scritto, ma si direbbe talvolta che egli rinneghi molte delle sue opere. Intendiamoci: non che le rinneghi nel senso di non assumerne la responsabilità artistica (il che è avvenuto solo per i lontanissimi suoi versi riuniti sotto il titolo «In memoriam», scritti per sua nonna Rita della quale ricorda, in una lettera al De Meis, «l’imagine benedetta », versi che egli, trovandoli pessimi, non solo ripudiò, ma dei quali volle persino distruggere gli esemplari), ma nel senso di non amarli più e di tenerli in pochissimo conto. Per d’Annunzio un’opera letteraria, una volta compiuta, un’opera teatrale rappresentata, cessano virtualmente di esistere. « Quelle tristesse » scrisse un giorno a Maurice Barrès « celle du travail achevé qui se refroidit et se fige! ». In realtà egli non vive, non pensa, non spera che per l’opera che sta scrivendo: quella sola ama; di quella sola, parla agli amici ed ai fedeli; su quella sola, sembra fondare con certezza la sua gloria futura: in una parola, di quella sola vive.