l’ESILIO 265 Ebbene, io confesso candidamente che ogni qualvolta ho udito parlare di esilio o di esule accennando a Gabriele d’Annunzio, non ho mai potuto esimermi dal sorridere. Lo stesso d’Annunzio, che fini coll’accettare questa eroica e patetica interpretazione della sua assenza dall’Italia come accetta e fa sua, colla più grande imperturbabilità, ogni idea altrui che lo seduca, trasformandola, poi, vivificandola ed abbellendola col dono incomparabile della sua geniale fantasia, lo stesso d’Annunzio, dicevo, non sognò neppure lontanamente di dare da principio un tal carattere tragico e grandioso al semplice viaggio che egli intraprendeva. Parti da Genova sul finire del gennaio 1910 come il pili modesto, il più comune turista che si rechi a Parigi per una decina di giorni. Era accompagnato dal suo fedele servitore Rocco Pesce e fornito di un paio di bauli e del suo inseparabile « nécessaire » da « toilette ». Telegrafo a me che già mi trovavo a Parigi per affari miei, dicendosi lieto che io fossi rimasto ad attenderlo; e cosi assoluta era la sua convinzione di non rimanere se non per il tempo necessario a sbrigare alcune sue faccende personali, che ad un mio telegramma in risposta al suo, in cui chiedevo se potevo recarmi a Londra per qualche giorno, prima del suo arrivo a Parigi, mi rispose telegraficamente: «Attendimi Parigi se vuoi che ci incontriamo: intendo rimanervi brevissimo tempo ». Che poi, partito dall’Italia per un paio di settimane, egli sia rimasto in Francia per quasi sei anni senza più ripassare il confine nemmeno per un’ora, ciò può stupire soltanto coloro che non hanno mai avvicinato d’Annunzio se non attraverso le sue opere ed ignorano quindi le sue facoltà di adattamento, il nessun attaccamento di lui al passato, agli eventi, alle cose ed alle persone, la sua indescrivibile, smisurata antipatia per tutto ciò che sa di viaggio,