VITA SEGRETA DI GABRIELE D’ANNUNZIO le spese di casa e che quella somma doveva bastare per i bisogni degli ultimi 15 giorni del mese. Dopo quella poco confortante dichiarazione, il Poeta si rinchiuse nel suo studio a lavorare, coll’animo ancora più leggero della borsa. All’ora del tè (la sola ora in cui si mostrava), tenemmo una specie di breve consiglio della Corona. Gli esposi il mio piano. Partire per Parigi la notte stessa; portare al signor Astruc, impresario designato del futuro « San Sebastiano », che attendeva impazientemente il copione della tragedia, qualcosa che somigliasse ad un manoscritto, se proprio non lo era; consegnare questo qualcosa, ed attendere il versamento di qualche biglietto da mille; ritornare di carriera ad Arcachon. L’ardito progetto finanziario ebbe il gradimento di d’An-nunzio, non tanto perché fosse gran che geniale, ma perché egli comprese subito che era l’unico attuabile. E dai cassetti dannunziani usci tutto quello che fino a quell’ultimo quarto d’ora il cervello del Poeta aveva spremuto della nascitura tragedia. Ahimè! Non erano che tre o quattrocento timidi versi, in tutto! Avrebbe compreso Gabriele Astruc, ultimo e degno rappresentante di una schiatta di ebrei portoghesi, che il valore di un’opera di poesia non poteva essere valutato a metri come una pezza di stoffa? Avrebbe egli, di conseguenza, allentato i cordoni della sua borsa d’astutissimo impresario, in cambio di un cosi esile manoscritto? Per una insperata fortuna, quei brani di poesia appartenevano a differenti atti della tragedia. V’erano, me lo ricordo perfettamente, i delicati e patetici cori delle «Vergini » e dei « Giovani », del primo atto. Vera la violenta e magnifica invettiva dell’« Imperatore » al «Santo », del terzo atto. V’erano brani del misterioso racconto della « Donna malata di febbri » e qualche altro frammento importante. Una specie di campionario della tragedia.