D’ANNUNZIO E I SUOI SERVI 341 periodo di tempo che bastasse a creare in lui nuove abitudini, nuovi vizi e talvolta nuove virtù, era scartato per sempre dal suo «girone » familiare. Rimasta a Venezia a guardia d’una casa che d’Annunzio non doveva mai più abitare (il Palazzo Barbarigo delle Terrazze), si affezionò ai muri come fanno i gatti e, per non lasciare quei muri, perdette d’Annunzio. A Venezia, per tutta la durata della guerra, oltre ad Aélis, e all’abile ed affezionata cuoca veneta, Albina, che continuò poi a « funzionare » nelle cucine del Vittoriale sotto il burlevole nome di « Suora Intingola », d’Annunzio ebbe al suo servizio Dante. Non l’Alighieri reincarnato (come potrebbero trovare naturalissimo gli spiritisti alla Gonan Doyle), ma il signor Dante Fenzo, gondoliere di professione e di diritto perché figlio, nipote e pronipote di celebri gondolieri veneziani. D’Annunzio lo ebbe al suo servizio non perché lo scelse ma perché Dante faceva, per cosi dire, parte dell’inventario della « Casetta Rossa », la dimora che il Poeta subaffittò dal principe Hohenlohe durante tutto il periodo della guerra. E, come tale, Dante rimase. Era un piccolo strano uomo che, di dantesco, non possedeva che il naso e un carattere ombrosissimo e sospettoso: difetto però, che, per d’Annunzio, costituiva una grande qualità perché aiutava egregiamente il servo a sceverare i buoni dai cattivi visitatori e a rimandare implacabilmente questi ultimi con grande soddisfazione del nuovo padrone. Non so spiegarmi come sia entrato anch’egli nella leggenda dannunziana e come i creatori di frottole sulla vita del Poeta non abbiano approfittato di un simile argomento ! Udendo infatti d’Annunzio dire ogni giorno con la massima tranquillità: « Dante, lustrami gli stivali », oppure: « Dante, mi hai preparato la camicia per il frac? » avrebbero