d’annunzio e la politica 559 L’Italia era ormai alla vigilia della Marcia su Roma. In quei giorni, che vanno dal 5 ottobre al 28, io fui, come ho già accennato, il tramite fra il Poeta e Mussolini. In quel Regno d’Italia in cui imperavano contemporaneamente tre autorità: quella ministeriale ridotta ad una larva, quella fascista che rappresentava la forza travolgente, e quella puramente spirituale impersonata in d’Annunzio, io percorrevo il Paese con tre salvacondotti: l’uno firmato dal Comandante, l’altro con la firma del Duce del Fascismo, il terzo con quella del Prefetto di Milano. I posti occupati dalle Guardie Regie, i gruppi sparsi dei legionari di d’Annunzio e i numerosissimi controlli delle milizie fasciste, si alternavano con tanta rapidità che spesso m’accadeva di mostrare per errore un salvacondotto al posto dell’altro; e persino i rappresentanti della Pubblica Sicurezza finivano col sorridere davanti a quello strano individuo apparentemente gradito a tutti i partiti. In quello scorcio di mese in cui i destini della Nazione stavano per mutare completamente rotta, frequentissimi furono i miei colloqui con d’Annunzio. Ma benché io gli ripetessi ogni giorno che l’epilogo era imminente, egli non ebbe mai questa sensazione. Tutto lo univa a Mussolini, ma nel cuore suo egli era convinto che nulla di decisivo stesse per avvenire e che convenisse ancora lasciar tempo al tempo. E il giorno stesso in cui Mussolini, chiamato da Sua Maestà il Re a costituire il nuovo Ministero, parti per Roma, d’Annunzio era ancora cosi fuori dal mondo e dalla realtà, da scrivermi in perfetta buona fede questa magnifica lettera, in quel momento già superata dagli avvenimenti, ma che riletta oggi, dopo la magnifica ricostruzione della Patria avvenuta per opera del Dace, acquista il valore di un presagio: « La Patria è opera di creazione assidua. Il lavoro dev essere alfine il creatore della più grande Patria e il legislatore di se stesso.