d’annunzio e il dio denaro 155 quentato né buoni né cattivi compagni, si gratta la pera, e, alzando le braccia al cielo, dice: « Ma, e allora, che cosa ne fa, di tutto quel denaro che guadagna? ». Per far comprendere un mistero di questo genere a tutta questa buona gente, io dovrei rispondere: « Ma non capiscono, cari signori, che d’Annunzio è lontano dalla loro concezione della vita almeno quanto gli eschimesi sono lontani dagli italiani o dai francesi? ». Anzitutto la parola risparmio non esiste nel dizionario dannunziano: e, come corollario, l’altra parola « Banca », non ha, neppure essa, significato alcuno, per il nostro Poeta. D’Annunzio, per chi non lo sappia, non ha quasi mai messo un soldo ad una Banca; si può quasi dire che ignori questa istituzione, buona o cattiva che sia. Quando incassa una somma importante di denaro, sia se si tratta di 10.000 lire sia di 100.000, una delle cose più difficili a sapersi, è dove la riponga. Visto che, come ho detto, di Banche non è neppure il caso di parlare, è fuori di dubbio che il denaro da lui incassato rimane fra i muri della sua casa; ma sapere se egli l’ha nascosto in una valigia piuttosto che in un cassetto, fra le pagine di un volume della sua biblioteca piuttosto che sotto un cumulo di carte, sopra un mobile o sul- lo stipite di una porta, anziché sotto il piedistallo di una statua, è quasi impossibile, poiché non solo egli non rivela a nessuno il nascondiglio, ma lo muta ad ogni momento. Cosa anche più comica, qualche volta si dimentica egli stesso dove l’ha messo, e passa dei quarti d’ora angosciosi a ricercare il denaro che gli occorre e che non trova più. Oltre a ciò, si guarda bene dal fare conti di cassa, di modo che, ammettendo che abbia ricevuto 50.000 lire, che le abbia riposte e che, a più riprese, abbia prelevato qualche frazione della somma per successive necessità, egli non sa mai esattamente quanto gli rimanga ancora, e preferisce rimanere nel dubbio sino a completa estinzione del pacchetto dei biglietti di banca piuttosto che affrontare corag-