d’annunzio e il dio denaro 169 semestre di 256.000 0 se possa egli aiutarmi. Ti sarò grato se cercherai di farmi avere la somma. » Si noti che non siamo che nel 1921. Ho ragione di ritenere che, da quell’epoca ad oggi, le somme frequentemente necessarie per i lavori del Vittoriale non si limitino più a sei cifre, ma siano divenute di sette. Infatti, a proposito della somma di cinquantamila lire che Mondadori gli versava mensilmente in anticipo sui ricavi dell’«Opera Omnia», gli telegrafa: « Ti prego di non tardare a mandarmi il solito miserabile assegno ». E, un giorno che, nel 1926, Mondadori e il suo avvocato si recano a Gardone per parlargli d’affari, rifiuta il colloquio da lui precedentemente fissato e manda loro all’Hó-tel questo laconico biglietto: « Avete nel vostro portafoglio cin-quecentomila lire per me? No. Non ho voglia di llciacolare”, ma di comperare pietre nostrane e majoliche di Persia ». Come s’è visto, davanti al dio Denaro, in d’Annunzio esistono due persone: il grande artista che vuole e deve creare, e che perciò anela alla tranquillità finanziaria e (come l’ha affermato egli stesso) «un animale di lusso al quale il superfluo è necessario come il respiro ». Certamente questo secondo essere è pieno d’esigenze, e la maggior parte delle sue richieste di fondi hanno per movente l’acquisto di cose che gli piacciono o le continue spese inerenti a una vita dispendiosa. Ma talvolta quella che parla in lui sincera e imperiosa, è l’autentica angoscia dell’artista che vorrebbe avere l’animo e il cervello interamente liberi per la creazione della sua opera. Esiste una sua lettera a me diretta da Arcachon a Parigi, nella quale questa disperata battaglia del suo spirito è lumeggiata in modo dolorosamente commovente: