d'annunzio e il cinematografo 177 Conoscevo allora, come conosco bene anche oggi, la sua mentalità. Se a d’Annunzio si propone una cifra, dicendogli che è il massimo che viene offerto, d’Annunzio, due minuti dopo, parte da quella cifra come minimo di domanda da parte sua. E può accadere che l’affare vada in fumo a tutto suo svantaggio. Rividi la sera dopo il Pastrone; gli dissi che non avevo ancora avuto la possibilità di riferire a d’Annunzio il primo colloquio, e questa volta, riparlando dell’affare, arrivati che fummo alla cifra, drizzai le orecchie come un asino che senta vicina la stalla. La somma fu enunciata per la seconda volta, il modo chiarissimo. Cinquantamila lire. Non c’era dunque più alcun dubbio. Salutai il signor Pastrone e la sera stessa comunicai l’offerta a d’Annunzio o, per essere più esatti, secondo le mie abitudini con lui, dissi, prima, che mi avevano offerto ventimila lire; attesi che egli elevasse la pretesa a quaranta-mila, lasciai, che vi dormisse sopra una notte, e finsi, il giorno seguente, d’aver strappato al Pastrone, non già le quarantamila richieste, ma cinquantamila lire tonde. Firmato il contratto, cominciarono, come al solito, le dolenti note. Urgeva darvi esecuzione e per il Pastrone ogni perdita di tempo equivaleva ad una grossa perdita di danaro. Non avevo che un mezzo a mia disposizione per obbligare il Poeta a lavorare; quello di fargli capire che, malgrado la massima deferenza, ammirazione, simpatia, e chi più ne ha più metta, dei due cinematografari verso il Grande Poeta italiano, essi non avrebbero consegnato il famoso «chèque» se non a didascalie scritte e a titolo dichiarato. D’Annunzio che, quando non ne può fare a meno, sa anche essere comprensivo e ragionevolissimo, accettò la condizione, e, munito delle fotografie portategli da Pastrone, e delle didascalie esistenti, si mise al lavoro.