Tutti sanno quanto interesse suscitassero nel primo decennio di questo secolo le dottissime opere di Costantino Jirecek ‘) e di Matteo Bartoli2) sul dalmatico, su quell’idioma cioè, che, svoltosi spontaneamente dal latino volgare, si parlò — e fino ad un certo punto si scrisse — in Dalmazia nei secoli di mezzo, e i cui ultimi echi giunsero, sull’isola di Veglia, sino quasi ai giorni nostri. Ancora nel secolo XVII Giovanni Lucio, con una intuizione che per i suoi tempi ha del maraviglioso, aveva affermato che in Dalmazia « lingua Latina corrupta ad instar Italicae promanavit » e aveva osservato che « conferre volenti, patebit in Dalmatia Latinam linguam ad instar Italiae mutationem passam, ipsamque Dalmaticam vulgarem circa 1300 proximiorem Picenorum et Apulorum linguae fuisse, quam Venetorum vel Longobardorum, prout ab anno 1420 Venetorum simillimam effectam »8). Ma per la scienza le parole del Lucio rimasero per più secoli lettera morta. Appena verso il 1880, G. I. Ascoli e V. Brunelli, seguendo metodi e perseguendo intenti diversi, intuirono l’esistenza del neolatino indigeno di Dalmazia e richiamarono l’attenzione degli studiosi sul nuovo campo che alla scienza glottologica si discopriva. Il richiamo fu ascoltatissimo. Ne venne una assiduità di ricerche e un calore di studio, che, durati più anni, trovarono la loro più bella e più compiuta *) C. JlRECEK, Die Romanen in (len Städten Dalmatiens während des Mittelalters, in Denkschriften der K. Akademie der Wissenschaften, vol. XLVIII-XLIX, Vienna, 1902-4. 2) Dr. M. Q. BARTOLI, Das Dalmatische, in Schriften der Balkankommission (Linguistische Abteilung), vol. IV e V, della K- Akademie der Wissenschaften, Vienna, 1906, 2 vol. 3) I. Lucil, De Regno Dalmatiae et Croatiae, Amstelaedami, 1667, pag. 277. 11 concetto qui espresso fu ripreso, svolto con più ampiezza e documentato dallo stesso Lucio nell’ altra sua opera Memorie ¡storiche di Tragurio ora detto Trait, Venezia, 1674, pag. 192 sgg.