253 Altra convenzione ebbe a fare nello stesso tempo il doge con Sicardo e cogli abitanti di Giustinopoli o Capodistria, rinnovando il patto precedente, distrutto nell’ incendio del palazzo (1), per la quale veniva guarentito ai Veneziani il libero passaggio e commercio nel paese senz'alcuna gravezza ; promettevasi di soddisfare puntualmente all’antico obbligo delle cento anfore di vino all’anno; di mantenere sempre la buona concordia ed amicizia ecc. La grossa somma che la Repubblica avea dovuto sborsare alla principessa Valdrada, le gravi spese delle guerre precedenti, i danni dell’incendio, resero necessario al doge di convocare 1’ assemblea del popolo per farsi pagare una decima. Era questa una imposta, che esigevasi forse annualmente, ma certo in caso di bisogno, sulla dichiarazione che ciascuno faveva delle proprie sostanze, con vincolo di giruamento, e pagavasi tanto in danaro quanto in generi (2). Sembra che questa volta si avesse principalmente in veduta di esigerla anche da quelli che erano venuti ad abitare di recente nelle Isole, o che erano ancora debitori di arretrati, leggendosi che un Fuscaro Numicano, avendo giurato di aver soddisfato alla decima ai tempi di Pietro Can-diano, fu assolto. In generale, pare che pagar la decima fosse in quel tempo, come più tardi gl’ imprestiti, un atto di aggregazione alla consociazione veneziana, pel quale imo entrava a parte dei suoi diritti e doveri : acquistava, cioè la cittadinanza. Erano poi altre fonti di sussidio al pubblico erario il Ripatico su tutte le barche che approdavano, il Teloneo o ne altresì la dichiarazione di questo, sottoscritta da altri testimoni, che tale quietanza per parte di Valdrada era avvenuta liberamente e spontaneamente, senza violenza o persuasione di chicchessia. (1) Cum cunetae essent cartulae ab igne cremaiae, tam vestrae quam similiter et nostrae. Doc. nel cod. Trev. (2) Marin, St. civ. e poi. del comm. dei Veneziani.