260 co ei mutava per la via dei sepolcri, e nessuno non troverà strano che il pubblico uscisse a quando a quando in note chiarissime di meraviglia e stupore. Certo in ciò il maestro non avea potere alcuno: sono cose soggette alla fortuna. Egli non potea fare che il Mercadante non gli avesse involato il pensiero della sua introduzione, che poi divenne così pubblico e comunale, come sanno coloro che lo intesero fin sugli organetti ; nè poteva ritornare in onore quella cavatina ch’era stata infiorata o sfiorata a’nostri orecchi da tante gole. Ben diverse furono le cagioni per cui non piacque il rimanente dell’atto. Il duetto fra la Carradori ed il Reina (Àppio) non aveva contro di sè altra sventura che le proprie sue note, e poteva piacere, come uon piacque. Si direbbe che a quel punto I’ estro abbandonasse il maestro, così povero e nudo d’ogni dolcezza è il duetto e tutto quel che vien dopo. Tutte le bellezze dello spartito sono invece raccolte nel magnifico duetto con cui s’incomincia l’atto secondo e eh’è degno del genio più immaginoso e felice, così per li motivi che per la condotta e il lavoro degli stromenti. Esso fu cantato con pari valore dalla soavissima Carradori e dal Cosselli (Sallustio), che felicissimo riuscì in alcuni passi e in certe modulazioni, sì che la impressione prodotta da questo luogo nel pubblico fu pari al-