9 consigliava sloggiare. Esitò qualche tempo lo Stefani, e riflettendo alla qualità de’ tempi che correvano, non sapeva se cosi alla cieca affidarsi, tuttavia non volendo per questo mettere in contingenza 1’ esito della sua missione, si recò all’ albergo, e con acconcio pretesto licenziatosi, tornò al palazzo Albani. Era appena entrato nello stanzino, che apertosi 1’ uscio vide comparire un uomo in militare arnese, picciolo e gracile della figura, brizzolato il viso dal vajuolo, di capigliatura nera, poco calvo, con baffi corti ed occhi vivaci, ma cispi per visibile calore. Era il generale Lan-drieux. Si rallegrò dapprima, malamente parlando l’italiano, collo Stefani della sua venuta, passò poi ad assicurarlo della lealtà del suo animo, dell’avversione sua alle rivoluzioni, vantandosi d’averne impedita una in Ispagna ; stargli troppo a cuore, diceva, il decoro della nazione francese per abbassarsi a dar mano a quanto or si macchinava contro lo Stato veneto, con disonore di Bonaparte e del Direttorio, i quali dipingeva coi più neri colori e valendosi delle voci più triviali ; sentire in fondo all’ anima i benefici che all’esercito francese erano derivati dalla costante amicizia dei Veneziani, moverlo riconoscenza, moverlo sentimenti d’ umanità, desiderio della pace prossima a concludersi coll’imperatore quando fosse impedita la rivoluzione della veneta Repubblica, mentre nel caso contrario sarebbe indefinitivamente proti-atta dall’ambizione di Bonaparte. Queste parole di tanto sdegno contro la Repubblica francese e il suo generale supremo davano a vero dire di che pensare allo Stefani e lo mettevano in qualche sospetto. Tenendosi quindi bene avvertito, destramente evitò di avvilupparsi in siffatto argomento, e ogni cura volse a scoprire che cosa si dovesse veramente credere della pretesa macchinazione. Dissegli Landrieux che la rivoluzione dello Stato veneto era l’opera d’un club rivoluzionario di Milano, Vol. X. 2