76 ANDREA RAPICIO comecché soggetta al dominio della Casa d’Austria, non era incorporata negli Stati ereditari, non faceva parte quindi di quel complesso di paesi transalpini, che allora incominciavano a presentarsi sotto forma unitaria col nome d’Austria. La rappresentanza, affidata ad un residente stabile o console, aveva un non so quale carattere di missione all’estero. Avvenne talvolta che tale rappresentanza di Trieste fosse affidata a Italiani non triestini, anzi accreditati diplomaticamente alla Corte come rappresentanti di altri Stati esteri: citiamo, per esempio, un Giambattista Romanini che, più tardi, fu a Vienna « agente dei Triestini e del Re di Polonia » nello stesso tempo. Gli attentati contro l’autonomia trovarono probabilmente dei complici tra i nobili triestini, alcuni dei quali, i Francol, i Petazzi, e certi capi degli Argento, dei Leo, dei Tiepolo, degli Snello, degli Aquileia, dei Giuliani, erano veri cagnotti della Corte e dei capitani. Tra quelli e i fautori della libertà si riaprirono le violente discordie degli altri anni. Non sappiamo da quale parte inclinasse Andrea Rapicio, divenuto nel 1567 vescovo della città: era certo persona devotissima alla Dinastia e adoperata dagli arciduchi in alcune importanti missioni per la regolazione dei confini in Friuli e, come vedremo, per la navigazione del Golfo. Salito sulla cattedra di San Giusto, usò la sua autorità in reiterati tentativi di conciliare le fazioni cittadine e di calmare gli imperversanti odii e le tumultuose discordie. Agì anzi con troppa energia e forse fu messo in pericolo, se l’arciduca Carlo credette opportuno invitarlo a essere più cauto e a confidare anche nell’opera del braccio secolare. Nel 1573 il Rapicio si illuse di aver raggiunto il suo scopo e di aver conciliato i furibondi partiti. A solennizzare la pacificazione, il 21 dicembre fu apparecchiato un gran banchetto, a cui intervennero ai lati del vescovo gli avversarii riconciliati. Ma l’odio, che li divideva di là dalle apparenze, proruppe durante la festa. Essa finì tragicamente, poiché il Rapicio restò avvelenato dall’acquetta frodolenta messagli nel vino e cadde morto tra l’orrore dei convitati. Quell’anno la città era in agitazione, perché, avendo stabilito di ricostruire il castello (anche per rendere Trieste più sicuro scalo di certi commerci che l’arciducato voleva introdurre per il Levante) il governo aveva deciso di riscuotere una decima sulla produzione del vino, del sale e dell’olio. Il Consiglio la rifiutò, dicendola contraria ai patti