XXVI. L’AFFERMAZIONE ITALIANA CONTRO LA CARNIOLA Nella rovina d’ogni bene materiale e spirituale, la città rinvenne tuttavia un’energia vitale: il suo municipalismo. Presa tra l'ostilità della gente imperiale e quella della gente marchesca, essa si vide, nel suo tragico isolamento, faccia a faccia col suo destino e con la sua coscienza. L’essere circoscritta da sè stessa, l’essere ridotta alle sue sole forze e costretta a pensare da sè alla sua sorte, ridiede vigore alla sua vecchia anima comunale, rinnovò l’impulso verso le antiche forme del governo cittadino. Onde in bilico tra le due potenze avversarie, la città si trovò quasi automaticamente arbitra di sè stessa e affidata alle proprie cure. La guerra, con le sue distruzioni, con le sue discordie, col moto delle sue vicende inesorabili, aveva allontanato migliaia di persone dalla città: il Kandler calcolò che nel 1519 la popolazione fosse la metà di quella ch’era stata avanti il 1468. Erano fuggiti o emigrati tutti o quasi tutti gli elementi favorevoli a Venezia e nemici dellTmpero. Rimaneva una plebe impoverita e sbattuta, pronta ad accettare qualunque signore l’avesse sfamata e messa al lavoro, e una classe dirigente, quella ristretta del Consiglio maggiore, devota in maggioranza all’Im-pero, come erano i nobili e i borghesi grossi in tutte le città contese tra l’impero e Venezia. Questa classe, nella quale erano odiati alcuni fautori di Venezia rientrati in città, come Battistino de Bonomo, Daniele de Rossi, Giusto Rapicio, Boncino Belli e altri, si trovava dinanzi ai risultati della guerra e questi stabilivano una condizione politica che doveva sembrare, a ognuno, da imo a sommo immutabile. Gli odii sollevati dalle armi non si spegnevano: quando i cittadini, fuori le mura, trovavano