TENTATIVI DI COMMERCIO 33 e con le loro barche qualche commercio di mercanzie veneziane. Affidarsi al mare, a qualunque prezzo, era la salvezza. Ma le autorità imperiali furono d’avviso contrario, non potendo non vedere in tali commerci anzitutto un vantaggio economico per il nemico, poi l’apertura di vie propizie alla penetrazione di tradimenti politici. Pertanto, d’ordine imperiale, il luogotenente della Carniola, il 5 ottobre, proibì severamente il transito alle merci provenienti da Venezia via Trieste o dirette, via Trieste, a Venezia e del pari il commercio marittimo con le Marche e con la Puglia. L’autorità imperiale tagliava alla città le salvatrici vie del mare e la inchiodava ai Carsi nemici. Ma il Consiglio maggiore rifiutò di obbedire, in onta dei decreti, e deliberò di concedere il transito, perché la sua soppressione avrebbe arrecato l’ultima stretta alla città, togliendole l’unico modo che le era rimasto per avere le vettovaglie. Il 15 ottobre il vescovo e il capitano si unirono ai giudici per rispondere al predetto luogotenente: gli dissero che, se alcuni cittadini non avessero arrischiato la vita e i beni sul mare, la città affamata avrebbe aspettato fino alle calende greche l’aiuto dell’interno. Ormai giaceva in tali condizioni, che non c’era mezzo di nutrire i cittadini. Avevano esaurito il granaio. Esauriti i depositi privati. Non c’era cittadino o abitatore, che avesse viveri per più di tre giorni. Già da due giorni non si vendeva piti pane sulla piazza. Ouel giorno il capitano aveva prestato ai pistori un po’ di farina della riserva militare del castello. Uno di Lubiana aveva offerto, sì. una partita di grano: ma a prezzo doppio di quello usato e un misto di segala e di putrido frumento. La peste aveva intanto imbrattato parecchie case. L’epistola pietosissima non stemperò il duro cuore degli stranieri, che avevano in mano la città. Il 29 ottobre un messo imperiale chiese la consegna delle cento orne di ribolla per la regalia dellTmperatore. Il Consiglio fece le scuse, ma rifiutò, allegando ancora una volta una miseria generale. In quel sùbito il rappresentante imperiale pubblicò un decreto che vietava ai Triestini ogni commercio di vino. Vero è che poco ne avevano dato le vigne devastate, ma anche quel poco sarebbe stato una risorsa, specie se scambiato con grano. Invece il divieto era l’ultima mazzata sul capo di quella povera gente. Fu deciso di alzare le grida presso Massimiliano. Nel medesimo giorno (31 ottobre) gli mar.- Storta di Trieste, vol. II. 3