XXVIII. SUL CONFINE DELLA CIVILTÀ Anche nel xvi secolo la città si trovò a essere l’ultima oasi di civiltà sulla frontiera della barbarie. Ma le sventure politiche e le vicende della sua economia non le permisero di mantenere il suo stato civile così onesto e così decoroso, com’era stato nei tempi anteriori. Essa fu povera di quattrini, povera di vita e povera di cultura. Nel 1516 adottò nuovo sigillo, abolendo quello mirabile, che aveva le mura e la torre, e usandone uno con lo stemma dell’aquila sovrapposta all'« alabarda ». Il conio fu preparato a Lubiana: triste per la sua origine, triste per quell’oppressione, onde l’aquila schiacciava la sottostante arma cittadina. Sigillo veramente simbolico del nuovo stampo, con che, sotto il dominio straniero, s’improntava la vita cittadina. I Triestini si facevano sempre guidare dalle leggi dello Statuto, questo vero evangelo della loro civiltà. E come l’amavano, come veneravano proprio il volume miniato! Per portarlo a Vienna, a quelle tante dispute dei privilegi, compravano la tela per « involtizzarlo » e « un paio di bisazze » per metterlo dentro, con cura, come una reliquia santa. Nel 1550, chiedendo alla Corte la restituzione della copia ivi mandata per le riforme, dicevano d’aver bensì un’altra copia, ma che il popolo « avrebbe creduto di mancare d’un occhio se gli fossse mancato quell’antichissimo libro ». Lo Statuto era anche una prigione spirituale, che impediva di allargare l’orizzonte morale della città, di conformarla a nuovi tempi, a nuove legislazioni. In un senso era la base della salvezza politica e nazionale della città, in un altro era una delle ragioni essenziali del suo continuo scapito intellettuale. La costituzione medioevale si perpetuava con tutte le possibili conseguenze: l’isolamento politico-economico aggravava