37» LA CITTÀ RIVOLTA VERSO L’iTALIA protesta contro i giurati, chiedendo che il loro corpo fosse sciolto. A Vienna si pensò che il Salm era stato poco energico o inabile: lo si dimise e si concentrarono il potere civile e il militare nelle mani del Gyulai, che cercò di accattivarsi le buone grazie di tutti. Ma non tardò a minacciare, approfittando di ciò, che erano stati gettati sassi contro una sentinella. Si erano già sollecitate e si sollecitavano dimostrazioni di fedeltà da parte degli stranieri, dei mercanti e degli elementi cittadini, che ancora erano rimasti « fedeli », e degli impiegati governativi. Ma la prova era tutt’altro che favorevole. Dopo quasi un anno di questua, ad onta di parecchi contributi del governatore, una colletta « per le esigenze dello Stato », fatta in tutta la Regione Giulia, aveva dato una somma irrisoria. Il governo non poteva più contare sulla città. Si sarebbe ostinato a parlare della « fedeltà » di Trieste: ma non avrebbe più trovato appoggio se non in uno stretto cerchio, sempre eguale, tra gli affaristi, trai suoi impiegati, tra i rinnegati, tra i sanfedisti, tra gli incoscienti elementi della massa amorfa. La politica seguente al 1848 gli avrebbe alienato sempre maggior numero di gente e l’ambiente nazionale sarebbe rimasto nel tono e nel carattere acquistato « con impetuoso sviluppo » in quell’anno. La freddezza generale, con cui la stampa accolse l’assunzione al trono di Francesco Giuseppe, segna un punto preciso e chiaro di quello sviluppo. L’articolo di commento costava una nuova denuncia al Giornale di Trieste. La Frusta, descrivendo le feste fatte al nuovo Sovrano a Vienna, si dilungava a parlare del brutto tempo che c’era stato e della malinconia che aveva prodotto. Machlig chiamava « bastardo dei Wasa » il nuovo Imperatore. La città si era rivolta con la sua vera anima verso l’Italia. Tuttavia con grande speranza. In un numero della Gazzetta di Trieste, scrivendo della situazione generale, un redattore anonimo si volgeva alla flotta dell’Albini, che si sperava potesse portare la libertà italiana dal mare e stazionava nell’Adriatico: « Oh, Albini, Albini — gli diceva con ardito patriottismo — che fai là fermo? » Anche nella Venezia occidentale si accorsero del sopravvento preso dalla parte più viva dell’italianità triestina. Patriotti triestini avvertivano il Comitato di vigilanza a Venezia, alla fine del 1848, che nella città vi erano spie e traditori. Da Trieste vennero allora alcune delle poche offerte di privati, che dall’Italia si inviassero in soccorso a Venezia. Gyulai annunciò a Schickh, che agenti