TRIESTE E VENEZIA 193 una grande ripresa della seconda, dove s’ebbe, dopo il 1760, un tale e così mirabile rifiorimento dei commerci che, in brevi anni, il numero delle navi di lungo corso, come ricorda il Marin, salì da-trentasei a oltre cinquecento. Sembrò allora veramente che la vecchia Repubblica ritrovasse i suoi antichi splendori. Anzi la sua bandiera dominava anche il porto di Trieste, dove essa s’avvantaggiava sempre più di tutti i concorrenti. Infatti, di 4234 navi di bandiera diversa arrivate a Trieste nel 1768, ben 3169 erano veneziane e battevano bandiera di San Marco. Però, appunto le rinnovate e fiorenti speranze, concepite coi traffici ripresi dopo il 1760, rendevano più gelose le autorità veneziane, che temevano qualunque novità potesse arrecare danno al risorgimento dei loro commerci e danno temevano da ogni successo degli altri. In realtà, mancava al governo veneziano, chiuso in antichi dogmi e in vecchie venerate tradizioni, la possibilità di ammodernare l’organismo portuale, di abolire i troppi privilegi concessi, di abbassare i prezzi di piazza e di trasporto, di rendere più alacre il transito, più ricco il commercio proprio. Mancava, inoltre, ogni slancio del capitale, che s’investiva poco nel mare e punto nelle industrie. Ed era appunto lo sviluppo delle industrie, che, potendo fare di Trieste un mercato d’approvvigionamento, impensieriva le autorità veneziane. A Venezia era assente una forza legislativa creatrice, che sapesse costituire l’ordine necessario a favorire e a intensificare, anche a mantenere quella ch’era l’ascesa naturale dei commerci, portata dai tempi nuovi. Anzi, questa trovava ostacoli nelle leggi e nell’antiquata fiscalità. Avveniva, fatte le debite proporzioni, quello che sarebbe accaduto a Trieste, se si fossero lasciati fare i soli patrizi, prigionieri degli Statuti. Sino dal 1748 una commissione di cinque Savi aveva ammonito che il commercio avrebbe evitato Venezia, perché troppo gravi erano i dazi d’ingresso e d’uscita e di magazzinaggio. « Parrà evidente — dissero — essere impossibile pretendere che i mercanti facciano scala a Venezia a preferenza di Trieste, dove non esistono né dazi, né altra sorta di gravezze ». A Trieste, resa innocua la parte dello statuto comunale che regolava la vita economica, il commercio cercava in sè stesso il suo ordine e suggeriva dalle sue necessità le leggi che gli occorrevano. Vivo era, altresì, lo slancio della speculazione, non frenata da troppe leggi e da troppi controlli. Storia di Trieste, vol. II. 13