XLIV. I VALORI INTELLETTUALI La vita spirituale di Trieste non fu né migliore né peggiore di quella che ebbero le città italiane della sua statura. Ma essa, difendendo la frontiera e sulla frontiera la lingua e irradiando le sue forze morali lontano, tra gli Slavi e anche nel Levante, compì a beneficio della civiltà italiana un’opera, a cui nessun’altra nei tempi moderni si può paragonare. Trieste non ebbe un grande poeta, non ebbe un grande artista, non ebbe grandi istituti di cultura: tagliata fuori del Regno dai confini politici, separata dallo Stato austriaco dalla sua volontà, fu ridotta alle sue sole forze. Di più, e perché impossibilitati di vivere liberamente e perché giustamente desiderosi di più largo campo d’attività, i migliori ingegni, di solito, emigrarono verso i più importanti centri nazionali. La città non ebbe neppure un grande scrittore, che le lasciasse un’eredità di pensiero politico. Quello patriottico veniva dalla storia e si ereditava da padre in figlio, ma anch’esso, per quanto illuminato da nobilissimi esempi, non trovò un teorico di alto valore, un vero scrittore, che gli desse un disegno potente. Ebbe maggior numero di autori, dal Kandler al Vivante, l’idea austriaca, forse perché più bisognosa di difesa. L’italianità della città, propugnata da molti ingegni sull’esempio del Rossetti, non fu opera d’individui, ma poderosa costruzione civile di una collettività, guidata da maestri pratici. Un’eredità di pensiero nazionale lasciò il giornalismo del 1848. Negli ultimi decenni gli scrittori dell’idea nazionale si trovarono nel campo giornalistico, dal quale operarono profondi influssi con un’azione, che fu una vera milizia spirituale. I commerci e il lavoro davano inevitabilmente un’impronta materiale a una parte della vita: la lotta politica e nazionale, assorbendo