— 347 — Poscia, fatta oscura la notte, a piccoli drappelli i superstiti di Marghera si avviarono a Venezia. Ultimi i difensori del forte Manin e gli artiglieri abbandonarono il luogo, lasciando delle micce d’ineguale lunghezza, perchè tratto tratto accendessero i cannoni caricati con tre o quattro proiettili. Questa misura serviva ad ingannare il nemico nello stesso tempo che distruggeva le ultime artiglierie rimaste servibili. La ritirata fu dolorosa, straziante ; il rammarico e la disperazione erano in ogni cuore. Il sergente napoletano Stenore Capocci, che per il suo valore durante 1’ assedio meritò la promozione ad ufficiale, tornava sui suoi passi onde raccogliere un fardello dimenticato. Nell’ oscurità dell’ interno della casamatta vide vagare un’ ombra che si avviava al deposito delle polveri, tenendo in una mano un piccolo fanale acceso; era un soldato del reggimento Friuli, che accin-gevasi a far saltare in aria il forte. Il Capocci lo afferra e a forza lo trattiene, e solamente le preghiere e gli abbracci fraterni valsero a farlo desistere dal progetto spaventevole che aveva concepito. Si persuase, che ancora rimaneva tempo per combattere e che la vita devesi spendere utilmente per il paese. Quella ritirata si eseguì con silenzio e segretamente, come pure prima di effettuarla nulla fu lasciato che servir potesse al nemico. Un soldato piangeva di abbandonare Marghera: un suo camerata lo rimproverò, dicendogli : Tu piangi perchè siamo costretti ad abbandonare il forte ? È desso che ci ha abbandonati. Infatti si poteva dire che quella fortezza non esisteva più. Due ufficiali austriaci scrivevano le seguenti lettere : « Non essere le caserme che un mucchio di rovine, i » parapetti e le traverse un ammasso informe. Le bombe