[§ noi CETI POPOLARI 633 principe, per goderne i favori; e perciò molto spesso oziosi, pronti soltanto alle adulazioni, alle piacevolezze e alle vanità; paghi della quiete, delle feste e del benessere, che ad essi il principe procura senza fatiche e senza contrasti; secondo le regole della cortigianìa, finemente dettate da Baldassare Castiglione (1), a cui lo spagnolismo aggiunse fasto e falsità. Tutte queste classi si adoprano a consolidare le proprie ricchezze e la continuità del nome domestico, quando non abbiano possessi di feudi, col sistema dei fedecommessi (§ 144), che fu la base economica della nobiltà e l'appoggio più saldo dell’assolutismo; poiché, appunto col fedecommesso, era possibile assicurare ai propri discendenti quella vita oziosa e agiata, che era la prima condizione per salire vèrso il principe e verso la nobiltà. I ceti popolari, privati così della parte più operosa dei propri membri, e ridotti alla massa che vive di un lavoro inferiore o manuale, spregiato dalla società, non hanno propriamente diritti politici, ma servono per il principe da contrappeso alle pretese esorbitanti dei nobili, e sono perciò ora angariati ed oppressi, ora appagati e favoriti. Tra le varie categorie, vien prima l'umile borghesia e i piccoli proprietari, che vivono del proprio lavoro, sia attendendo alla coltivazione dei campi, sia esercitando il piccolo commercio, sia conquistando i primi gradi delle professioni liberali e del sacerdozio; una categoria, che resta in umile mediocrità, che è costretta nei vincoli delle corporazioni e chiamata agli uffici meno elevaci, e sembra aver esaurito le antiche energie dei tempi fortunosi. Vengono poi gli artigiani, organizzati nelle corporazioni; ma tra essi resiste la vecchia suddivisione della maestranza, la (1) Si veda specialmente il libro quarto del noto trattato: Il C'orte-giano, Lione, 1553, pag. 369-77, dove si designano i vizi della cortigiania e se ne indirizzano a buon fine le virtù.