324 DIR. PR1V. NELI.’eTÀ ROM.-BARBARICA [§ 61] Accanto a questa forma del matrimonio, si ebbe, nel diritto longobardo, una unione pure legittima sine mundio, nella quale lo sposo non aveva il mundio nè sulla donna nè sui figliuoli, e l’unione era riguardata come un concubinato. Tuttavia è da avvertire che questo concubinato, dì fronte ai terzi, aveva valore di unione legale, per quanto inferiore, e i figli avevano un limitato diritto ereditario e parentale verso il padre e la famiglia paterna; non altrimenti di quanto consegue dall’ unione di un libero con una schiava, poiché anche in questo caso, si ha unione inferiore legalmente tollerata. Più tardi, per la spinta delle nuove ricchezze e del diritto romano, si elevò la condizione giuridica della donna (§ 58); e allora, pur rimanendo esternamente intatte le formalità primitive, il negozio giuridico del matrimonio incominciò a differenziarsi da ogni altra compravendita o da ogni altra donazione, risultando come compiuto matrimonii contrahendi causa (1). La volontà della donna, forse già attiva negli atti precedenti la conchiusione degli sponsali, non entra ancora come parte essenziale del negozio; ma già, nell’atto degli sponsali, si incomincia ad esigere dallo sposo l’obbligo di trattare la donna a lui affidata, col riguardo che inerita una sposa legittima, sotto commi-nazione di multe convenzionali, e si fissa ormai legalmente la quota spettante alla donna da parte della famiglia paterna, a titolo di dote (faderfio); e la quota dei beni del marito, che vengono costituiti alla donna a titolo di mefio e di morgengabio (§ 62). Il matrimonio risulta sempre dal compimento dei due atti della desponsatio e della traditio; ma la desponsatio non contiene soltanto, come elemento essenziale, l’obbligazione del mundoaldo relativa alla consegna della donna (1) Cfr. Brandileone, Saggi sulla storia della celebrazione del trimonìo in Italia, Milano, 1906, pag. 351 e seg.