124 IL VESCOVO VASSALLO DEL PATRIARCATO vivente. Pena a chi tentasse infrangere questo decreto: incorrere Maic-statis indignationem e pagare mille libbre d’oro. In onta di tali minaccie, vive proteste si levarono da più parti contro quest’ordine imperiale, che abbassava l’alto rango del vescovato triestino. Gridarono e menarono scalpore probabilmente più di tutti il vescovo stesso e i Triestini, i quali dalla novità non potevano temere se non danni, tanto perché si sovrapponeva a quella del vescovo un’altra autorità feudale, quanto perché, costituendo vescovo e cittadini un complesso autonomo, si trovavano accollata una sovranità, che non era più quella diretta dellTmperatore-Re e che sminuiva o poteva sminuire la loro autonomia e la loro dignità. Opposizioni vennero forse anche da Roma, in base ai principii per cui lottavano il Papato e l’impero. Certo le proteste devono avere avuto clamorosa eco in Italia, poiché Enrico IV, volendo rispondere a quelle che chiamava calunnie, rilasciò al Patriarca un secondo diploma (23 luglio 1082) e con esso gli riconfermò la concessione già fatta e la giustificò, dando al diploma stesso, come fu già osservato, l’aspetto di un manifesto politico. Egli dichiarò che in chi aveva dato e in chi aveva ricevuto la donazione non c’era stato desiderio di appagare un’avidità, ma solo rispetto della libertà, non avaritie, sed rcspectus libertatis, vedendo che la Chiesa triestina era ormai in pericolo di morte. Era stata ridotta quasi al nulla dalle rapine consumate nei suoi beni da altri e dalla povertà e dalla negligenza dei suoi vescovi; non era stata pari ad alcuno dei raptores (probabilmente signorotti dei territori dov’essa teneva i suoi beni) e non aveva potuto essere soccorsa dall’autorità reale. Perciò egli, Enrico, aveva deciso di darne il principato al Patriarcato d’Aquileia, non già perché questo le togliesse, bensì perché le assicurasse la sua libertà e la difendesse contro i suoi nemici, prendendola nel suo grembo non ut ancillam, sed ut filiam, non come serva, ma come figlia. Aveva quindi trasmesso al Patriarca l’esercizio della potestà reale sopra la Chiesa triestina, affinché, a essa sempre vicino, la potesse proteggere tenendo su essa il dominio diretto invece del Re (nostra vice imperando). Rilevava altresì di aver preso questa decisione non di suo impulso, ma dopo aver consultato il principe suo figlio, l’arcivescovo di Milano, i vescovi di Piacenza, di Torino, di Belluno, di Padova e di Vicenza, nonché alcuni marchesi e fedeli suoi.