200 CONTINUE OSCILLAZIONI POLITICHE genero del buon Gherardo di dantesca memoria, ebbe solo il nome di podestà e l’autorità: non esercitò la podesteria direttamente, sì bene per mezzo di un vicario, Sagramoro di Flagogna, soldato e giurista friulano. Ed ebbe anche un’interruzione nella sua carica, poiché nel mezzo del 1312 era podestà di nuovo Anselmino di Padova. I ghibellini sembrano essere stati in auge. Un Giuffredo di Trieste, già sbandito dalla città, era capitano ai servizi del conte Enrico e complice delle devastazioni che questi e i Croati del Babanich compievano nell’Istria. Al seguito di Arrigo VII due della casa Bonomo — Pietro e Pertinace, secondo Ireneo — avrebbero prestato il servizio delle armi. Venezia era avvolta da nuove difficoltà: la congiura dei Quirini e dei Tiepolo, la ribellione della Dalmazia, la venuta dellTmperatore e le sue esigenze politiche. Cercava tuttavia di non perdere il controllo di quanto avveniva nella Giulia. Rinnovò col Patriarca i patti circa l’Istria e procurò in ogni modo di rendere innocua ai suoi interessi la accresciuta potenza del conte di Gorizia, che ora, facendo sue le richieste del Patriarcato per lTstria, poteva offenderla anche da Trieste. Nel 1311 il doge Gradenigo seppe infatti ottenere dal conte Enrico il vìnculum fidelìtatis e lo ascrisse alla nobiltà veneziana. Nello stesso anno, non avendo più ragione di allontanare dalla podesteria il conte, suo fidelis e suo patrizio, la Signoria veneta impose al Comune triestino la ratifica dei trattati stretti col Patriarca per lTstria e il rinnovamento dei patti speciali che lo legavano ad essa. Succeduto, nel 1312, ai dogi Gradenigo e Zorzi Giovanni Soranzo, con saggezza e con l’energia del temperamento riordinò la politica veneziana. Intanto che durava il difficile assedio di Zara, nel maggio 1313, mandò Marco Siboto nelle città del Golfo che non erano ancora in diretta sudditanza a chiedere la rinnovazione del giuramento di fedeltà. L’inviato veneziano si presentò, il 28 maggio, al vicario Sagramoro, ai giudici e al Consiglio di Trieste e chiese che giurassero fedeltà al Doge «giusta l’antica consuetudine e giusta la forma dei patti». L’antica consuetudine prevedeva anche l’accettazione del vessillo di San Marco a ogni elezione di nuovo Doge e l’innalzamento dello stesso vessillo nella piazza del comune. I rappresentanti della città, sobillati probabilmente dal conte Enrico, che stava allora risolvendo a tutto suo vantaggio la