i66 L’« ASSEDIO DI ROMAGNA » Pungeva gli Oltramontani il desiderio di farsi largo tra i due maggiori contendenti e approfittavano d’ogni occasione per trarsi avanti. Trieste era buona esca per i loro appetiti: la Oesterreichische Reimchronik di Ottocaro, proprio riferendosi ai fatti di cui parliamo, la dipingeva « bella e forte »: ein stat schocne une stark — gelegen bi des meres sant — Trieste ist si genant... Era un’immagine seducente. Il grosso esercito friulano, capitanato da Enrico di Prampero e da Nicolò Baldaco di Cividale (lo dicono composto di 5000 cavalli e 50.000 fanti) uscì il giorno di San Marco del 1289 dal Patriarcato. A Monfalcone si riunì con gli alleati. Quindi assieme andarono a piantare i quartieri dinanzi alla grande bastita o « città » di Romagna. Ma la trovarono troppo potente e non osarono attaccarla. I due campi si fecero danni reciproci con le macchine e fecero lavorare le balestre. Nessun urto. Intanto si cercavano accordi, ma inutilmente. Si tentavano anche i tradimenti. I Veneziani scoprirono nelle loro file un condottiero preparato a barattar la sua fede. Si chiamava Girardazzo dalle Lancelunghe. Lo legarono, lo misero al posto d’una pietra in un mangano e lo scagliarono, come un proiettile, chi dice dentro Trieste, chi nel campo del Patriarca. E anche questo parve segno di poderosa energia. Mentre i Triestini, ormai percossi dal lungo assedio, attendevano l’assalto al campo veneziano per sortire e prendere parte alla ‘lotta e dalle mura spiavano con ansia se l’ora aspettata si avvicinasse, un bel giorno videro che le truppe del conte di Gorizia se ne andavano. Che cos’era successo? Oro veneziano era corso? Probabile. Al Patriarca, difatti, non riuscì di trattenere più oltre il svio principale vassallo. La cui partenza misteriosa produsse tanta depressione morale, che anche il Patriarca dovette levare le tende e ritornare nel Friuli. Il triste avvenimento non piegò tuttavia la parte triestina che teneva il Comune, e animava la difesa. Le porte rimasero chiuse. La gran bastita di Romagna e la città murata, provveduta di nuovi fortilizi e di alcune porporelle piantate nel porto, restarono ancora l'una di fronte all’altra. Agli assediati riuscì di far passare dei messi attraverso le linee veneziane. Essi andarono dal Patriarca: chiedevano soccorsi urgenti e il mantenimento dei patti conchiusi. La città era agli estremi; non la si lasciasse in balia dei Veneziani. Il Patriarca Raimondo si