PARTITO FRIULANO E PARTITO VENETO Restituzione dei beni sequestrati ai Veneti, riparazioni per i danni a loro apportati nella città. Il Comune si impegnò a risarcire dentro quattro anni, pena il doppio, una somma molto grossa per indennizzo delle spese fatte da Venezia per il corpo speciale di cavalleria su citato e di quelle sostenute per il mantenimento di molti prigionieri. Come garanzia per l’esecuzione dei patti circa le macchine e le mura dovette rimanere in ostaggio a Venezia, coi ventiquattro esiliati, il vescovo Ulvino. Per il podestà, per il suo vicario, per il Consiglio e per il Comune i tre procuratori giurarono fedeltà al Doge e il mantenimento di tutti i patti fino allora conclusi tra il Comune e la Repubblica. Nessuna clausola di favore fu concessa ai Triestini, se non la remissione dei danni fatti fuori della loro città come atto di guerra. Né gli alleati poterono intercedere a loro favore. Essi dovettero piegare la testa amaramente e pagare. San Marco era abituato a mantenere con estremo rigore i suoi impegni: non tollerava che altri vi mancasse. La lezione così atroce produsse i suoi effetti, forse anche perché il vescovo Brisa de Top, altro friulano, seguito nel 1287 al de Portis, sollevò delle rivendicazioni temporali. Tra la pace di Venezia e quell’anno il partito veneto deve aver avuto un pieno sopravvento in città, perché in quegli anni molti cittadini, nemici di Venezia, furono banditi o cacciati dalla città: altri se ne andarono per evitare guai maggiori. Ma, poiché gli uomini hanno il tragico destino di non apprendere nulla dall’esperienza storica, anche la lezione di pochi anni prima fu dimenticata. L’oblio fu facilitato dalla passionalità delle fazioni. I patriarcheschi, con l’aiuto del conte di Gorizia, mentre si erano rinnovati i conflitti con Venezia per il possesso dellTstria, lavorarono attivamente a Capodistria e a Trieste. Nel 1287 ebbero la vittoria in ambedue le città, che si ribellarono anche una volta contro la Repubblica. Capodistria fu presto ridotta all’impotenza. L’affare di Trieste invece fu lungo e diffìcile: i Triestini, come riconobbe anche uno scrittore avversario, si difesero allora con singultivi constantia et exitnia virtute. La città non fu tuttavia unanime: una parte rimase fedele a Venezia. Si ricordano tra i partigiani di San Marco la famiglia de Giudici e un Torhasino da Trieste, che abbandonò tutte le sue cose e corse ad arrolarsi, con suo figlio Marco, sotto le bandiere veneziane.