gi6 Sofferenza dell’ammiraglio non compensa cento violazioni dell’inferiore verso il superiore, ed anzi è una vera semina di queste ultime. Una vera semina di mancanze, uno sgretolamento di quel prestigio che con la giustizia costituisce l’autorità indispensabile di un solido comando d’uomini. Il quale è costituito essenzialmente di tre cose: giustizia, prestigio, generosità. Si può comandare con limitato prestigio e senza generosità, ma non si comanda senza giustizia. Io parlo del vero comando, non di quello effimero dato a un braccio gallonato che ha in mano i regolamenti e il codice solo per colpire e non a propria guida. Io credo di intendermene alquanto di questa difficile cosa che è la disciplina militare, ed ho sempre ritenuto e ritengo ancor oggi che mettendone lealmente, francamente in chiaro gli errori umani che inevitabilmente avvengono nella sua applicazione, essa si rafforzi e si rinvigorisca anziché intaccarsi. Non è più colla cretina e cieca disciplina d’altri tempi che si possono oggi governare e dominare le nostre masse intelligenti, i nostri equipaggi intellettualmente raffinati e che dobbiamo cercare di raffinare sempre più. La disciplina deve essere sempre più ferrea, ma non più irragionevolmente come quando insegnava che il superiore ha sempre ragione specialmente quando ha torto. Questo assioma non regge più...» «Il giorno verrà — concludeva — in cui, io resti o non resti nella Marina, si riconoscerà che sono rimasto lo stesso soldato nella disgrazia come nella fortuna ». Il 16 marzo 1914, alla vigilia della caduta del Ministero Giolitti, l’ammiraglio dovette presentarsi a Roma davanti alla commissione di disciplina, dopo aver testimoniato nel processo contro Cacace e Degli Uberti al tribunale militare di Napoli fra la deferente curiosità del pubblico e dei giudici. Ormai stanco per la tensione e lo sforzo con cui si sosteneva da mesi nella disgrazia, tuttora incerto del suo destino, si sfogò in una lettera: «Ho sentito una grande freddezza che mi sembra l’eco di quella crudeltà commessa dal tribunale non nella condanna, ma nella motivazione della condanna, motivazione ingiusta e contraria ai risultati del dibattimento. Io sono sfinito dalla stanchezza morale e mi sento come sventrato ». Mai nella sua vita Cagni pronunciò parole più amare e disperate.