¡58 LIBRO XXV, CAPO XYIII. A proposito del calabrese, mi torna qui opportunamente da commemorare lo scherzo, che a questo principe fu fatto in Roma, allorché, stretta l’alleanza col pontefice, eravisi recato a concertare sugli affari della guerra, ed a godere delle feste, che il popolo romano gli tributava. Nella notte stessa del suo soggiorno in quella capitale, fu appeso alla porla del palazzo, ov’ egli alloggiava, un cartello contenente questo verso esametro : I celer, o Calaber, venetis nova praeda futurus. Ne fu da tutti riputato autore un qualche veneziano, e forse lo stesso ambasciatore della repubblica, Francesco Diedo : per la qual cosa il papa fece intimare a questo, che se ne partisse da Roma, e contemporaneamente, o forse qualche dì avanti, era partito da Venezia anche Foriino ambasciatore del conte Gerolamo: indizio certissimo di scambievole dichiarazione di guerra. Da questa digressione si ritorni al filo del racconto. Provocate adunque dall’ insulto di Roberto da San Severino le genti del duca di Calahria stavano ormai per uscire in campo contro i veneziani. Ma quando i turchi videro sventolare le insegne di san Marco, bramosi di ricuperare la libertà, si unirono insieme in numero di trecento a cavallo, e fingendo di volersi scagliare impetuosamente sui nostri, si allontanarono alquanto dal loro padrone e corsero al campo veneziano, offerendosi al proveditore o per combattere sotto la Signoria o per essere condotti a Venezia, per essere quinci rimandati al sultano. Assai di buon grado gli accolsero i veneziani : ma intanto il duca Alfonso, sbigottito per 1’ avvenuto, si astenne dall’ uscire in campo con altre truppe. Perciò anche i nostri ritornarono ai loro alloggiamenti. Altri de’ turchi, ch’erano rimasti tuttora col calabrese, presero lo stesso partito dei loro colleghi ; fuggirono dalla custodia rigorosa, che Giovanni Rentivoglio aveva poslo sopra di loro, e vennero al nostro campo. Parecchi e di questi e dei primi furono assoldati insieme con li