— 217 — luogo e la gente. Il dolore aveva un respiro smisurato. Le povere donne del popolo piangevano come le sublimi Marie. Noi respiravamo l'aridità del Carso, e risoffrivamo la sete del Carso, come al Dèbeli o al Boscomalo. Per noi i quattordicimila morti del carnaio di Ronchi stavano sotto le lapidi e le forzavano. Quando l’uomo di Dio sollevò il calice, tutti avemmo desiderio di bere. L’odore di putredine ci serrava la gola e l’odore del lauro c’ inebriava d’eternità. E il labaro dei fanti era veramente il sudario del sacrifizio perchè veramente appariva nel bianco effigiata 1’ imagine di colui che vi poggiò la testa in quell’alba del Timavo. E v’erano le traccie del sangue, e v’erano le tracce della sanie ; perchè quando il corpo fu traslatato da Monfalcone ad Aquileia, il piombo cedendo e fendendosi lasciò colare quel che di divino la morte aveva disciolto e corrotto. E quel medesimo uomo di Dio che in Aquileia aveva ribenedetto il feretro ammantato, ora vedeva la grande bandiera ricoprire la medesima dissoluzione. E l’altare da campo era basso, era prossimo a terra ; ma il sacerdote coi suoi gesti creava nell’aria le guglie eccelse della preghiera. Prendeva le anime e la loro volontà di ascendere ; e le collegava e le sollevava ; e ne formava la cattedrale aerea, con l’arte votiva degli artieri senza nome.