— SI — dotto dal più furlto degli »calchi, c* è chi i* è tolto il pane di bocca, c' è chi ancora ai toglie il tozzo di tra i denti. Ieri un povero ragazzo fiumano, che mio padre m’aveva condotto, 1’ ho udito singhioz* zare nel raccontarmi quel che avevano fatto i suoi compagni, durante gli anni della guerra disperata. Pativano la fame, per sfamare i prigionieri. Ogni giorno rinunziavano alla loro scarsa razione di pane, alla loro misera fetta di polenta, per sfamare i grandi fratelli infelici. PigUavano bastonate e scapaccioni dalle sentinelle, ma non si sgomentavano ; e nascondevano sul loro pie* colo cuore fedele, come reliquie sante, come amuleti miracolosi, le stelline di metallo a loro offerte dai beneficati. Un’ordinanza della polizia ungherese stabi« liva seicento corone di multa, cinque anni di carcere duro e la perdita dei diritti civili per chiunque desse ospitalità o in qualsiasi modo soc*orre*ae un prigioniero italiano. Dopo la rotta di Caporetto, ogni giorno una mandra fangosa c ansante di vinti attraversava la città, cacciata innanzi col pungolo della baionetta e col calcio del fucile dalla sbirraglia croata. 1 cittadini piangevano, bevevano le lacrime in silenzio ; e si struggevano di aiutare i fratelli scalzi, laceri, seminudi, divorati dalla febbre e dalla fame, vivi soltanto negli occhi supplichevoli. I prigionieri marcivano chiusi in un recinto.