La ruina dei nepoti. 457 Allorquando il papa, la cui voce era quasi strozzata dal dolore e dall’ira, ebbe finito, awicinaronsi al suo trono sei cardinali, due per ogni ordine, con a capo il decano du Bellay, che avanzò preghiera di mitigare la rigorosa sentenza. Paolo IV respinse recisamente la raccomandazione e pregò una volta per sempre di non intervenire in favore dei colpevoli. Poi fece venire Camillo Orsini, Ferrante di Sanguine e il marchese di Montesarchio, ai quali affidò immediatamente tutti i negozi militari. Indi furono fatti venire il governatore di Roma, il datario ed i primi segretarii, ai quali venne fatto rigorosissimo divieto di obbedire in qualsiasi cosa ai nepoti. Su tutto dovevansi tosto redigere i relativi decreti. Alla fine della seduta, che durò due ore e mezzo, il papa disse al cardinale Ranuccio Farnese, che suo padre non sarebbe stato ucciso così ignominiosamente se Paolo III avesse dato un simile esempio di rigore verso i suoi nepoti. Sfrattò dal Vaticano il cardinal Vitelli, ch’era stato in strette relazioni coi Carafa. E là fece porre una cassetta, in cui chiunque poteva deporre segretamente le sue lagnanze. Ancor prima che scorressero i 12 giorni Carlo Carafa dovette portarsi in esilio a Civita Lavinia, i suoi fratelli a Gallese e Montebello. Venne parimenti rimandata da Roma tutta la loro famiglia, le mogli e figlioli, persino la loro madre, vecchia e affatto innocente. Nessuna difesa fu concessa agli accusati dei più gravi delitti, che non rividero più lo zio. Anche a Diomede Carafa fu tolto l’ufficio di castellano di S. Angelo.2 Un’unica eccezione fu fatta : il cardinale Alfonso, contro del quale non potè provarsi colpa alcuna, potè rimanere in Vaticano, ma dovette guardarsi bene dall’intervenire per i colpevoli, contro i quali il papa usava del continuo i termini più forti, senza farne il nome. La caduta dei nepoti era intervenuta così improvvisa, la condizione dei precipitati in un attimo allo stato di esiliati senza influenza e poveri era sì miserabile, che essi, data la mancanza in loro d’ogni sostegno morale, non potevano affatto adattarsi al loro destino. Tutti tre speravano che col tempo sbollirebbe l’ira dello zio sì gravemente offeso e che poi otterrebbero perdono.3 Sempre discordi fra di loro, cranio più che prima ora nella loro disgrazia. 1 V. 1'* Avviso del 28 gennaio 1558, loc. cit. e * lettera di G. Aldrovandi del 28 gennaio 1559. Archivio di Stato in Bologna. 2 Vedi Pagijucchi 133. 3 L’opinione che i nepoti sarebbero riammessi in grazia, era molto diffusa in Roma anche alla fine di febbraio del 1559 (v. una * lettera in proposito al Cardinal Madruzzo da Venezia 4 marzo 1559. Archivio della Luogotenenza in Innsbruck). In mia * lettera al cardinale Carafa da Milano 22 febbraio 1559 il cardinale Medici deplorava di non essersi trovato a Roma per impedire la rottura : * « hora io voglio bene sperare che le cose s’accomodino » ; offre perciò il suo aiuto. Originale nel Cod. Barb. lat. 5698, p. 20 Biblioteca Vaticana.