328 Libro III. Clemente VII. 1523-1534. Capitolo 7. materiale dava autorità, e tutto, perfino le questioni puramente ecclesiastiche, venivano trattate secondo punti di vista politici, egli non volesse rinunziare alla sua signoria temporale,1 ma l’ufficio di vicario di Cristo avrebbe tuttavia richiesto una concezione e un atteggiamento più elevato e cristiano. Era bensì appieno giustificata una certa aspirazione a potenza temporale, ma essa doveva andar subordinata alla cosa principale, alla sollecitudine per il fine soprannaturale della Chiesa e getta una forte ombra sul pontificato di Clemente VII la circostanza di non essersene egli che troppo spesso dimenticato. Nel gennaio 1529 il Quiñones andò a Napoli per trattarvi sulla restituzione di Ostia e Civitavecchia, sulla liberazione degli ostaggi e su un componimento tra l’imperatore e il papa. Clemente gli diede come socio lo Schònberg2 e destinò un’alta distinzione per il viceré.3 In seguito venne a Roma, in qualità di rappresentante dell’imperatore, Miguel Mai, «un uomo ardito, senza riguardi, tutto devoto all’interesse del suo signore ».4 Mai dichiarava d’avere tutte le facoltà per la restituzione d’Ostia e Civitavecchia e che questa sarebbe avvenuta appena avesse parlato col papa.6 Ciò fu impossibile perchè precisamente intorno a quel tempo il papa, certo in conseguenza delle commozioni e patimenti degli ultimi anni, cadde gravemente infermo. Malgrado un’infreddatura buscatasi nella Sistina il dì dell’Epi-fania, Clemente VII aveva tenuto concistoro l’8 gennaio,8 ma dopo infermò. La sera del 9 gennaio lo assalì una violenta febbre: la mattina seguente credevasi che egli morrebbe.7 Quantunque sopravvenisse un miglioramento, pure a Clemente il caso apparve siccome un avvertimento così chiaro della fine di sua vita, che la sera stessa del 10 gennaio chiamava a sé i cardinali e d’accordo con essi conferiva la porpora cardinalizia a Ippolito de’ Medici.9 1 Cfr. Dittrich, Cantorini 152. « Se i Veneziani mi trattano cosi ora, che hanno bisogno