Della lingua albanese e della sua letteratura, ecc. 85 babilmente nel 1506, e poscia tradotto in italiano da Francesco Rocca, ed edito a Venezia nel 1554 e nel 1568. È vero che il Barlezio (e lo stesso deve dirsi del Franco) appare come un latino di Venezia, giusta la definizione del Fallmerayer, per la coltura tutta italiana di cui era largamente fornito, pur essendo scutarino, cioè albanese ghego di nascita e di origine; ma da dove mai, tranne che dallTtalia, madre ed altrice gloriosa di civiltà vera, avrebbe potuto penetrare la luce del sapere nell’Al-bania, che fu sempre insidiata da Greci, da Slavi e da Turchi, cui per qualche secolo si aggiunsero gli Austriaci? È proprio necessario ricordare i rapporti non interrotti giammai, fin dai tempi preistorci, fra i popoli dell’Albania e quelli della penisola italiana, e richiamare quindi alla mente i più volte citati versi di Virgilio : Co-gnatas urbes olim, popiilosque propinquos, — Epiro, Hesperia, quibus idem Dardanus auctor—atque idem casus, che esprimevano nel miglior modo l’intimo pensiero di Roma circa i suoi legami originari e le sue relazioni con le genti dell’altra riva dell’Adriatico e del Ionio? È proprio necessario mettere in rilievo che tali legami erano ritenuti così intimi e tali relazioni così utili fin da allora per la sicurezza d’Italia, da spingere il « Savio gentil che tutto seppe » ad esclamare per bocca della dolente ed appassionata Andromaca: « Unam faciemus utramque Trojam animis; maneat nostro® ea cura ne-potes? (Eneide III vv.502-505). Non v’ha chi non sappia come già ai tempi di Cesare fossero sedi di cultura quasi del tutto romana le città più illustri dell’Albania, quali Durazzo che accolse Cicerone nell’esilio, e che offrì ricovero a Pompeo, e la dotta Apollonia, vero centro di studi d’ogni genere,