Un indice di Codici greci posseduti da Arnoldo Arlenio 115 allo stesso tempo del Faerno, ossia circa il 1561 (1). E tuttavia egli non giunse all’estremo della miseria tanto da dover vendere i suoi manoscritti, oppure non lo volle o non lo potè convenientemente fare, perchè, almeno in parte, li conservò fino alla morte, come si dirà poi. Ritorniamo all’indice dei codici dell’Arlenio, accennato a principio. Esso sta nel f. 200 del codice Vaticano latino 3958, in mezzo ad una serie, formata alla fine del secolo XVI, di indici di varie collezioni, quasi tutte di manoscritti, fra cui primeggiano gl’inventari dei codici greci dell’Escuriale nel 1579 (ff. 1-64, in due esemplari del testo greco e uno della versione latina), del Mendoza (ff. 70-73, ed. Graux, p. 359-389 ; e ai ff. 232-234, un diverso indice), di Antonio Eparco nel 1537 (ff. 213-216), di un innominato, che credo il Sirleto (ff. 175-180), quelli dei vari codici di Angelo Colocci nel 1558 (ff. 184-196), della Minerva in Roma (ff. 218-228) e di S. Salvatore di Bologna (ff. 235-306), e le note sopra i manoscritti dell’Aleandro consegnati nel 1542 e quelli che non si trovarono, pubblicate dal Dorez (2). Come appare dal confronto della scrittura con la lettera autografa dell’Arlenio ai card. Sirleto, la lista dei codici è tutta di sua mano, ad eccezione della nota in principio : « Sono di M. Arnoldo Arlenio Fiamengo, quale tien cura con somma dili-gentia per tutto, et ne ha et ritrova assai », che è di altra mano appena posteriore. l’Arlenio ha scritto in una prima volta la lista fino ad « alia pleraque », e poi ha con altro inchiostro aggiunto i due ultimi autori Teodoro Abucara ed Efrem siro, forse acquistati nel frattempo o che l’Arlenio in seguito credette meglio di far notare in particolare. Con altro inchiostro, probabilmente da un’altra mano, furono segnati con una croce 24 dei 35 autori o titoli della nota, evidentemente data in esame a qualche studioso e raccoglitore. L’Arlenio non intese punto di registrare tutti i suoi codici, nemmeno tutti i greci (3),— lo dichiara apertamente con quel finale « et alia pleraque », — e non vi segnò affatto i latini, dei quali pure avrebbe posseduto molti, almeno circa il 1574, secondo la relazione dei Gesuiti di Padova a S. Pietro Canisio. Conviene pertanto dire, che abbia segnato soltanto quelli che giudicò più notevoli e desiderabili ad una data persona o perchè inediti o perchè meno comuni. La nota a principio attesta che l’Arlenio andava facendo tuttora una vera incetta di codici e ne trovava assai. L’avrà quindi scritta prima di essere ridotto in strettezze, ossia prima della dimora in Piemonte. Probabilmente non l’avrà scritta (1) u Circa haec tempora, nani de loco et die obitus mihi quantumvis diligenter indaganti minime certo constai, finem vitae ad publica comoda devotae imposuit Arnoldus Arte-nius » eoe. 1. c. (2) Revue des bibliothèques, II, 58-60. Cfr. Bessarione, XXXVII, 1921, p. 117. (3) Non vi sono, ad es., i tre codici ora Laurenziani e i tre Viennesi (v. pag. 119), non la copia delle dispute di Massimo Tirio, che Enrico Stefamo usò nella sua edizione dell’anno 1550 (Botfield o. c. 494), non le copie dei commenti greci a Platone che aveva trovato in biblioteche d’Italia e mandato allo stampatore Enrico Petri di Basilea (v. sotto, p. 116 alla n. 3). Ma queste copie probabilmente non furono rimandate, e perciò forse non furono registrate nella nota e nemmeno comprese fra « alia pleraque ».