Annali d’ Italia. il fuoco in Roma , vi confumò il Campidoglio , il Tempio di Giove Capitolino , il Pantheon, i Templi di Serapide e d ’ Ili de , licco-mé quel di Nettuno , ed altri, il Teatro di Balbo , e di Pompeo , il Palazzo cl’ Augufto colla Biblioteca , e molti altri pubblici edifizj. Sì ampia fu la ilrage delle fabbriche, che fu creduto quell’incendio non operazion de gli uomini, ma gaftigo mandato da Dio . Se ne affilile fommamente Tito , proteilando nondimeno , che a lui come Principe apparteneva il rifarcimento di tante fabbriche del Pubblico . In latti a quello fine alienò tutti i più prezioiì mobili de’ fuoi Palazzi ; e quantunque molti particolari , e vane Città, e alcuni dei Re fudditi, gli offeriffero, o prometteflero di molto danaro per quel bifogno , non volle, che alcuno li fc omo da ile, ri-ferbando tutte quelle fpefe alla propria boria. Dopo sì fiero incendio fuccedette in Roma un’ atrociifima Pelle , di cui parlano (#) Aurcihu Suetonio , e Dione, e che fecondo ( a ) Aurelio Vittore fu delle più Valor in micidiali, che mai fi provaffero in quella Città, e fe ne diede la colpa alle efalazioni del Vefuvio. Dubitoio , quella eiìere la me-delima, che di fopra all’Anno 77. fu riferita da Eulebio, e però collocata fuor di lìto, cioè lotto l’imperio di Vefpaiiano . La lece Tito da Padre in sì funelle circollanze , confolando il Popolo con frequenti editti , ed aiutandolo in quante maniere gli fu mai poffi-bile . Certo inefphcabile fu l’amore, ch’egli portava ad ognuno, e la bontà fua , e la premura di far del bene a tutti. Era lecito ad ognuno 1’ andare all’ udienza fua , ed ognuno ne riportava o con-folazione o fperanza. E perchè 1 fuoi dimeiticì non approvavano , eh’ egli prometteffe fempre, perchè non fempre poi poteva mantener la parola : rifpondeva , non doverfi permettere , che alcuno mai fi pana malcontento dall’ udienza del Principe fuo . Tanto era in fornirla 1’ inclinazione fua a far de i beneiìzj , che fo-venendogli una notte, mentre cenava,1 di non averne fatto -veruno in quel ¿1, fofpirando diife quelle sì celebri e decantate parodi Sìieton. le ( b ) : Amici, io ho perduta quef ìa giornata. Giuniè a tanto que-Eiiiì'oplut, ^ ^ua benignità e amorevolezza, che nel poco tempo, ch’egli lujebius. regnòj a ninno per impililo , o per ordine fuo tolta fu la vsta . Diceva di amar più tollo di perir egli, che di far perire altrui. In effetto, ancorché lì vernile a fapere,che due de’principali Romani faceano brighe e congiure per arrivar allTmperio , e ne iof-fero effi anche convinti: pure non altro egli fece, fe non eiortarli a deiìilere , dicendo che il Principato vien da Dio , nè fi acquila colle fcelleraggini ; e che fe deiideravano qualche bene da lui, prò-