371 Se è lecito misurare l’ampiezza dell’opera ricostruttrice da scarsi lacerti, risparmiati all’oblio da mano benefica, la legge del 997 contro il pessimo vizio delle sedizioni popolari, è abbastanza eloquente. Essa non è una iniziativa estemporanea, ma riflette lo spirito della politica interna (1). In tempi di penoso turbamento pavidi reggitori avevano forse meditato di raccomandare l’incolumità della propria persona nel-1’ ambito dello stato alla protezione militare e politica dello straniero (2). Secondo altro costume il duca Orseolo l’affidava alla disciplina della vita nazionale, purificata da malsani istinti. Dal palazzo del governo era bandito ogni tumulto d’armi. Il luogo di convegno del popolo veneziano non doveva esser trasformato in una lizza di combattimento. La vivacità dei duelli oratori del placito non doveva offrire pretesto a risse cruenti. Perchè la libertà di discussione non degenerasse in episodi tragici, era vietato partecipare armati ai raduni. Chi si fosse arrogato il diritto di eccitare discordie e di spingere i compagni all’uso brutale della violenza, non sarebbe sfuggito ai rigori della legge, inflessibile nel-l’esigere il rispetto del buon ordine e della quiete cittadina da tutti i sudditi, dal più illustre ed elevato nel grado degli onori all’oscuro e ignoto popolano (3). Il duca, in ossequio alla dignità rivestita, per la salvezza della patria, faceva appello a questa solenne promessa. Il popolo la ripeteva con fede e lealtà. Essa esprimeva la condanna di un costume, che troppo spesso aveva turbato e umiliato la coscienza, e auspicava la fine delle lotte fratricide, che avevano fiaccato l’operosa attività di lavoro. 2. — Il dominio di una concezione politica personale aveva subordinato gli interessi della nazione a quelli di famiglia o, se si vuole, di clientela, e aveva distratto le cure del governo da quella (1) Romani», Storia cit., I, 385 sgg. (2) Come ho detto, attribuisco al tempo di Tribunio Menio, il capitolo relativo alla protezione della persona ducale, che per errore di amanuense figura nel diploma di Carlo III dell’883 (M. G. H., Capit., II, 142 sg.), e solo in quello, rimasto senza effetto. (3) Romanin, Storia cit., I, 385 sgg.