162 Vladimiro Korolenko descrizioni della natura così calde, così, direi quasi, carnose. È veramente una creatura viva, fatta di carne, questa natura che Korolenko ha goduto fanciullo e descrive ora, artista maturo, con la passione con cui ci si abbandona nelle braccia dell’amata. In questa visione della natura è inquadrata la pietà umana senza confini, e la natura stessa, la fredda, spietata, implacabile natura, ha pietà.... L’azione si svolge in un ambiente in cui solo un cuore che ha molto amato può scoprire, secondo l’espressione del Venghèrov — dei barlumi di coscienza umana — in una società di ladri, di mendicanti e di altra gente perduta, che ha il suo covo fra le rovine d’un vecchio castello in una cittadina della Volinia. E pure da questa società, il piccolo fanciullo, capitatoci per caso, esce puro ed intatto, tanto viva è la fiamma della bontà che arde dietro gli occhi consumati dal pianto della piccola Marussia, dell’innocente creatura eternamente triste. Uno di quei racconti che una volta letti non si dimenticano più, nel vero senso della parola. Impossibile non essere d’accordo con l’autore, che le sofferenze dell’esistenza sono quelle che distruggono le ingiustizie. In questa concezione della vita egli si avvicina a Do-stojevskij, da cui lo distinguono tante altre cose, e sopratutto la limpidezza dello specchio spirituale in cui il dolore si riflette e la comprensione della natura come principio indispensabile delia vita umana: elementi che mancavano all’autore del «Delitto e castigo», in cui la natura rimane sempre implacabile, spietata contemplatrice del dolore umano, e questo si ripercuote nell’animo dell’autore con tutte le sue torbide cupe risonanze e si riflette come in un’ acqua smossa, in cui, per le increspature delle onde, non è possibile discernere il fondo. Ma se più limpida è la poesia di Korolenko, più debole ne è il pathos dominante.